Che cos'è un confine?

Metodologia



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di Dragan Umek

I termini del problema

I geografi solitamente distinguono il significato dei termini «frontiera» e «confine», usati nel linguaggio comune come sinonimi, ma tecnicamente diversi; con frontiera si fa riferimento a un’area, che separa due territori, non sempre delimitata con precisione e soggetta a variazioni, ridefinizioni e spostamenti, mentre con confine si intende una linea divisoria tra due territori, segnata sul terreno da un tratto continuo e di solito riconosciuta internazionalmente (e in teoria con-divisa). Area o linea, uno spazio esteso o una contiguità senza spazi vuoti; una frontiera che caratterizza l’epoca premoderna e un confine proprio degli stati-nazione: gli storici conoscono bene tale distinzione, anche se alcuni la ritengono irrilevante, ad esempio Rolf Petri non ravvisa «alcuna divergenza concettuale importante tra il concetto di “confine”, che esplicita la condivisione, e quello di “frontiera”, che sembra invece esprimere l’idea del limite visto da una parte sola»[1].

In realtà le modalità di contatto tra gli stati sono sempre complesse e la denominazione di ciò che fisicamente li distingue e li unisce si avvale di termini più numerosi di quelli che ritualmente vengono ricordati e che si trovano in uso nelle lingue principali (border, boundary, frontière, Grenze, krajina, ecc.); ad esempio nella lingua turca si incontrano espressioni sia riferibili a «frontiera», come «ta?r», sia altre che fanno riferimento a considerazioni spaziali molto varie e per noi insolite. Maria Pia Pedani ne dà conto in modo dettagliato e tra varie denominazioni ricorda anche il termine «mun?safa», poco frequente, ma usato alcune volte in epoca medievale per indicare un territorio gestito insieme da cristiani e musulmani, cioè una «sovranità congiunta»[2], con regole precise e puntuali, quanto di difficile applicazione.

L’attenzione alla terminologia in uso nell’Impero ottomano, che ho richiamato, e la distinzione tra «confine» e «frontiera» è utile per inquadrare proprio il contesto adriatico, dove la secolare presenza di poteri molteplici, dagli imperi (caratterizzati anche da religioni diverse: cristiana e islamica), ai principati e repubbliche aristocratiche, e in seguito dagli stati-nazione alle dittature totalitarie, ha richiesto delimitazioni territoriali adeguate alle contingenze storiche e solitamente rispondenti agli esiti di conflitti. Tra le modalità più imponenti (per estensione) di marcare un confine va ricordato il «Confine militare austriaco»[3], in realtà una frontiera con popolazione militarizzata che separava possedimenti asburgici e ottomani, lungo le regioni meridionali della Croazia e dell’Ungheria. Una frontiera di lunga durata (dal 16° secolo al 1881) e sopravvissuta alle conquiste di Napoleone, che lungo la Dalmazia e fino alla Carinzia aveva costituito – inventato si potrebbe dire – una vastissima frontiera, cioè le «Province Illiriche» (1809-1813), funzionali al blocco continentale attuato dai francesi lungo le coste europee. Si potrebbe continuare a indicare le situazioni che richiamano il termine «frontiera», ad esempio la stessa Bosnia-Erzegovina dal 1878 al 1908, quando fu amministrata dagli Asburgo, ma conservando formalmente la sovranità ottomana, può essere considerata una frontiera: una forma di occupazione con sovranità debolmente riconosciuta[4].

Una modalità di ripartizione del territorio, particolarmente utilizzato dopo la prima guerra mondiale, fu l’istituzione di «stati cuscinetto», in zone di estensione ridotta, dove l’intento di tracciare un confine lineare era ostacolato dalla composizione multietnica della popolazione: ne sono un esempio la Stato Libero di Fiume, la Libera Città di Danzica, la Libera Città di Memel sul mar Baltico, ma anche il Distretto di Hatay tra Turchia e Siria, dichiarato indipendente nel 1937; nel secondo dopoguerra a tale funzione rispondeva anche l’istituzione del Territorio Libero di Trieste[5].

Anche in seguito ai conflitti balcanici più recenti sono state costituite formazioni statali che fanno pensare, in un certo modo e con le dovute differenze[6], ad una particolare «sovranità congiunta»: si pensi alla Bosnia-Erzegovina, formalmente uno stato, ma sostanzialmente diviso in due «Entità» distinte o il Distretto di Br?ko, soggetto ad un governo effettivamente congiunto da parte delle due «Entità» bosniache (serba e croata); lo stesso Kosovo, sostanzialmente indipendente, ma formalmente soggetto alla Serbia appare come un’ampia zona di frontiera tra Albania, Serbia e Macedonia[7].

A nostro parere conservare una distinzione concettuale tra frontiera e confine riveste tuttora una forte valenza metodologica per riflettere in termini storici e per affrontare la complessità del discorso sulle ripartizioni territoriali, una complessità che non si ferma alle denotazioni descrittive, ma che investe anche la genesi dei confini, quando certe definizioni vengono usate allo scopo di connotare le ragioni di un tracciato ritenuto «giusto»[8]; così a partire dai primi anni dell’Ottocento i confini, che si immaginavano adeguati per uno stato, potevano venire considerati naturali o strategici, e – verso la fine del secolo – etnici, definizioni utilizzate prevalentemente in funzione di rivendicazioni territoriali, sia nell’intento di adeguare l’estensione dello stato ai confini di una nazione immaginata, sia a sostegno di espansioni territoriali di stampo nazionalista.

Tali definizioni, consolidate da una lunga tradizione, vanno ritenute del tutto strumentali, quando vengono utilizzate in funzione rivendicativa, ma conservano un valore descrittivo nelle riflessioni sui confini, i cui tracciati rispondono essenzialmente ad un equilibrio di potere[9] in qualche modo raggiunto (e non ad una immaginata «giustezza») e tale equilibrio è da ritenere provvisorio perché legato alle condizioni economiche, diplomatiche o ideologiche di stati o di territori contigui.

Nell’analisi storica e geografica (ma anche sociologica) sono efficaci altri approcci allo studio dei confini; ad esempio l’attenzione alla permeabilità o alla chiusura[10] ai transiti delle persone e ai traffici commerciali rivela l’organizzazione interna degli stati e i rapporti reciproci e internazionali, ma anche le condizioni di vita dei singoli cittadini: nel caso del confine orientale italiano tale distinzione permette di rappresentare la situazione postbellica (una chiusura rigida, determinata dall’imporsi di un confronto bipolare dopo il 1945), quando si utilizzò la definizione di «cortina di ferro» per indicare la divisione ideologica dell’Europa, mentre negli anni ’70 del Novecento il confine tra Italia e Jugoslavia cominciò ad essere definito «confine ponte»[11], per sottolineare i progressi nei rapporti diplomatici tra i due stati e la ripresa di relazioni culturali e commerciali tra le popolazioni di frontiera[12]. Raoul Pupo utilizza  a scopo esplicativo le definizioni di «Frontiera di tensione», «Frontiera di mobilitazione», «Frontiera di potenza»[13] per rappresentare le alterne relazioni degli stati confinanti, tra il 1915 e il 1954, nell’Alto Adriatico: il confine orientale italiano, in diverse occasioni venne effettivamente ad assumere il ruolo di una «frontiera» incerta, e talvolta  instabile e precaria[14].

Più recentemente, con l’inclusione della Slovenia nell’Unione Europea, altre definizioni sono state usate per dare senso al confine «che non c’è più»[15]: qualcuno evoca l’immagine della «passerella nel vuoto»[16] per segnalare un cambiamento di ruolo (se non uno svuotamento di senso o una carenza di progettazione politica), altri lo ritengono un confine «relitto»[17] (in quanto mantiene – in ambito politico – un significato di separazione, anche dopo l’allargamento dell’Unione Europea), altri un ruolo lo individuano e usano l’immagine del «confine come cerniera urbana» ? in riferimento alle città di Gorizia e di Nova Gorica ?, rilevando come esperienze e progetti urbanistici «hanno chiaramente trasformato l’immagine del confine, fino a rovesciarla, da luogo della divisione a spazio dell’unione, da barriera a cerniera»[18], altri ricordano che il confine orientale italiano è anche il «confine degli altri»[19], cioè il confine occidentale della Slovenia, rimarcando la necessità di utilizzare (in questa come in tutte le occasioni in cui i confini sonno oggetto di riflessione e studio) un doppio sguardo, sensibile alle ragioni e alle visioni che coinvolgono due soggetti.

In questo atlante, pur accettando e considerando proficue le distinzioni e le definizioni ricordate, abbiamo utilizzato prevalentemente il termine «confine», come espressione legata al costituirsi degli stati moderni e alla loro evoluzione, ma specificando ove necessario le sue funzioni (militare, ponte, conteso, ecc.); il termine «frontiera» viene utilizzato con parsimonia[20] per denotare soprattutto le divisioni costituitesi durante conflitti e alcune volte viene usato per banali scelte stilistiche, mentre si utilizza sovente la dizione «fascia territoriale» per indicare acquisizioni o funzioni che seguono in qualche modo la linea del confine, prendendo spunto dall’espressione «fascia confinaria» utilizzata in ambito sociologico[21].

Infine il termine «demarcazione» richiede qualche esplicazione, in quanto viene utilizzato solitamente, e anche in questa ricerca, per indicare il limite che divideva la Zona A e la Zona B del Territorio Libero di Trieste (ma anche in altre circostanze attinenti a ripartizioni territoriali realizzate durante i conflitti). «Demarcazione» viene usato sia in senso generico, che tecnico e in questo caso indica una delle fasi di costruzione materiale di un confine. Le modalità con cui si giunge a stabilire nuovi confini, dalla seconda guerra mondiale in poi, si basano su una concezione «contrattuale»[22] degli accordi tra stati, che si sviluppano attraverso una progressione, solitamente indicata nelle seguenti quattro fasi[23]:

1- Precedenti storici: vengono prese in considerazione la composizione della popolazione della regione e gli eventuali tentativi precedenti (falliti o sospesi) di stabilire un confine;

2- Delimitazione: i partecipanti ai negoziati stabiliscono come deve essere tracciato il confine tra due territori, in base ai documenti presentati dagli stati coinvolti e scrivono i trattati sul confine, che viene ratificato da parte dei parlamenti coinvolti. Questa fase è la più importante in quanto si tratta di una decisione politica.

3- Demarcazione: una Commissione mista di tecnici nominati da ciascuno degli stati interessati, provvede a riportare sul terreno le delimitazioni stabilite. Sul territorio vengono costruiti dei segni di demarcazione (o segni principali) che indicano la linea del confine. Si tratta di un’operazione tecnica.

4- Caratterizzazione: una Commissione mista di tecnici nominati da ciascuno degli stati interessati, colloca altri segni lungo la linea di confine, tenendo conto delle esigenze della popolazione e con la possibilità di limitate variazione del tracciato, nel rispetto di quanto stabilito nella fase di demarcazione. Questa fase tecnica può continuare a lungo o non avere limiti di tempo[24].

L’esperienza maturata nell’elaborazione di questo atlante ci ha permesso di rilevare come i «precedenti storici» che caratterizzano la prima fase dei negoziati sui confini sono molto spesso condizionati o almeno orientati dalle precedenti ripartizioni amministrative, da quelle piu estese (regioni, province) fino a quelle comunali. Si puo ritenere che tanta parte dei tracciati confinari seguano limiti tradizionali, gia presenti sul territorio, mentre secondariamente intervengano elementi fisici: cio induce a riflettere con particolare attenzione sui limiti amministrativi interni agli stati, alla loro efficacia normativa (nello stabilire una separazione) e in prospettiva al ruolo che le regioni di nuova formazione (in particolare le «Euroregioni» ) possono svolgere.

 

 

 

 

[1] Rolf Petri, Gerarchie culturali e confini nazionali. Sulla legittimazione delle frontiere nell’Europa dei secoli XIX e XX, in Silvia Salvatici (a cura di), Confini: costruzioni, attraversamenti, rappresentazioni, cit., p. 90, n. 35.

[2] Cfr. Maria Pia Pedani, Dalla frontiera al confine, Herder, Roma 2002, pp. 5-8. Il termine «ta?r» venne utilizzato pure per indicare le città costiere organizzate come fortezze per la difesa da aggressioni dal mare.

[3] In tedesco Militärgrenze, mentre nella lingua croata o serba tale area viene più correttamente definita Vojna Krajina, letteralmente Marca Militare, cioè regione militarizzata.

[4] Modalità simili  hanno accompagnato il declino degli Ottomani nei Balcani durante l’Ottocento, quando l’autonomia di ampi territori (Serbia, Romania e Bulgaria) venne sostanzialmente concessa pur mantenendo un legame formale con Istanbul.

[5] La costituzione di piccoli stati cuscinetto, non è ovviamente una prerogativa del Novecento (si pensi alla piccola Repubblica di Cracovia istituita nel 1815), ma in tale secolo acquisiscono motivazioni prevalentemente etnico-nazionali.

[6] La differenza più evidente è la presenza di forze internazionali per garantire principalmente la sicurezza della popolazione.

[7] Altri riferimenti si potrebbero fare accennando al termine «Bantustan» utilizzato originariamente dal regime segregazionista del Sudafrica  per indicare territori circoscritti in cui vennero costretti gruppi di cittadini, identificati in base etnica, e obbligati a risiedere in un ipotetico territorio di appartenenza. Tale termine viene utilizzato per estensione da alcuni storici in riferimento ad altri territori, ad esempio per i confini tra Israele e Palestina, in particolare per la striscia di Gaza e per la Cisgiordania; vedi Giovanni Codovini, Geopolitica del conflitto arabo israeliano palestinese. Spazi, fattori e culture, Bruno Mondatori, Milano 2009, pp.199-200.

[8]  Sul caso italiano cfr. Maria Luisa Sturani, “I giusti confini dell’Italia”. La rappresentazione cartografica della nazione, in «Contemporanea», n. 3, 1998. Lo sfruttamento politico della geografia, e soprattutto della cartografia, è noto e denunciato da molti autori, in particolare va ricordato Benedict Anderson, Comunità immaginate. Origini e fortuna dei nazionalismi, Manifestolibri, Roma 2000 (in particolare il capitolo: Censimento, mappa, museo, pp. 189-208).

[9] L’uso strumentale della definizione di «confine naturale», venne già evidenziata dalle riflessioni di Friedrich Ratzel fin dal 1897, come ricordato da Guglielmo Scaramellini, Osservazioni su linee di confine e regioni di frontiera, in Alessandro Pastore (a cura di), Confini e frontiere nell'età moderna, cit.,  p.123-124; cfr. anche Raoul Pupo: «[…] si fece volentieri ricorso a categorie come quelle di confine naturale, confine strategico e confine etnico, […], ma dev’essere ben chiaro che il loro valore fu in ogni caso secondario e strumentale all’affermazione degli equilibri di potenza fra gli Stati confinanti», in Il confine scomparso. Saggi sulla storia dell’Adriatico Orientale, Istituto regionale per la storia del movimento di liberazione nel Friuli Venezia Giulia, Trieste 2007, p. 19.

[10] Su permeabilità e chiusura dei confini rimando a Paul Guichonnet, Claude Raffestin, Géographie des frontières, Presses Universitaires de France, Paris 1974, p. 61-62, testo classico anche per le indicazioni su tipologia e funzioni dei confini (pp. 49-54).

[11] Cfr. Georg Meyr, Raoul Pupo (a cura di), Dalla “cortina di ferro” al “confine ponte”. A cinquant’anni dal Memorandum di Londra, l’allargamento della Nato e dell’Unione Europea, Edizioni Comune di Trieste, Trieste 2004.

[12] In altre parti d’Europa l’impermeabilità dei confini si mantenne fino agli ultimi anni del 20° secolo, ad esempio l’isolamento dell’Albania viene illustrato bene da una breve frase di Besnik Mustafaj: «il numero di coloro che oltrepassavano anche solo una volta nella loro vita il confine – circondato da filo spinato nel quale passava la corrente elettrica e presidiato da una solida barriera di sentinelle, con le armi sempre pronte a far fuoco – era molto piccolo. Perciò il tentativo di oltrepassarlo in modo illegale significava andare con le proprie gambe incontro alla morte. O incontro al male minore: vent’anni di prigione politica», in Albania. Tra crimini e miraggi, Garzanti, Milano 1993, p. 27.

[13] Raoul Pupo, Il confine scomparso, cit., pp. 14-18.

[14] Par il fascismo, il confine verso est costituì la «porta orientale», una reale frontiera aperta alle ambizioni espansive del nazionalismo italiano. L’espressione già in uso nella pubblicistica interventista del 1915 venne ripresa da una rivista triestina («La Porta Orientale») a partire dal 1931.

[15] Marina Cattaruzza, Italia e Slovenia ovvero del confine che non c'è più, in «il Mulino», n. 4, 2008.

[16] L’espressione viene usata da Raoul Pupo (Il confine scomparso, cit., p. 39) per ricordare due crisi coeve, la dissoluzione della Jugoslavia e la fine della «prima repubblica» in Italia, e le ripercussioni sul confine tra i due stati..

[17] Cfr. Sergio Zilli, Il confine italo sloveno come confine relitto, in Elena Dell’Agnese, Enrico Squarcina (a cura di), Europa. Vecchi confini e nuove frontiere, Utet, Torino 2005, pp. 258-259.

[18] Barbara Delpin, Due città che dialogano attraverso il confine, in Alessandra Marin, Gorizia. Piani e progetti per una città di confine, Casamassima Libri, Udine 2007, p. 90-91.

[19] Marta Verginella, Il confine degli altri. La questione giuliana e la memoria slovena, Donzelli, Roma 2008.

[20] Compare invece in diverse citazioni, riprese da trattati o da testi d’epoca.

[21] In particolare la dizione «fascia confinaria» viene ampiamente usata nelle pubblicazioni dell’Istituto di Sociologia Internazionale di Gorizia, che costituisce – a livello nazionale e internazionale – uno dei centri culturali più importanti per le ricerche di ambito sociologico sulle aree di confine nella Regione Friuli Venezia Giulia.

[22] Sulla distinzione tra una concezione «dinamica» e una «contrattuale» del confine e sulle fasi della sua realizzazione pratica, vedi Elena Dell’Agnese, Geografia politica critica, Guerini scientifica, Milano 2005, p. 94.

[23] Le fasi indicate seguono le indicazioni sintetiche di Wilson R.M. Krukoski, Frontiers and Boundaries, visto sul sito http://www.info.Incc.br/wrmkkk/artigoi.html (settembre 2009); per altre indicazioni sulla demarcazione dei confini vedi David Newman, Un’agenda per la ricerca, in E. Dell’Agnese, Enrico Squarcina (a cura di), Europa.Vecchi confini e nuove frontiere, cit., p. 24; E. Dell’Agnese, Geografia politica critica, cit., p. 94-95.

[24] Ad esempio il confine tra la Francia e la Svizzera ha subito nove rettifiche tra il 1950 e il 1999 (cfr. Rapporto n. 1339 della Commission des Affaires étrangeres depositato il 13.1.2004 all’Assemblea Nazionale francese dal deputato René André, in cui vengono citati tutti gli accordi di rettifica dei confini franco-svizzeri dal 16° secolo in poi; visto in http://www.assemblee-nationale.fr/12/dossiers/0302210203.asp, giugno 2007).


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