L’occupazione Cosacco-Caucasica del Friuli (1944-1945)

Novecento



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 di Fabio Verardo

Dalla tarda estate del 1944 ai primi giorni del maggio 1945 una parte considerevole del Friuli (comprendente la Carnia, l’alto Friuli, le zone pedemontana e orientale) fu occupata da una formazione collaborazionista dei tedeschi composta da militari cosacchi e caucasici. Tali reparti giunsero accompagnati dai propri civili, veri e propri profughi che li seguivano con cariaggi e con tutto quanto avevano potuto portare nella lunga ritirata che li aveva condotti dalla Russia meridionale all’Italia attraverso l’Ucraina la Bielorussia e la Polonia.

Il loro insediamento in Friuli fu conseguenza della collaborazione militare e politica intrapresa con la Germania nazista dalle truppe sul fronte orientale e dall’élite nei circoli d’emigrazione a partire dal 1941. In un processo complesso plasmato da ragioni militari, politiche, ideologiche ed economiche, i tedeschi concessero alcuni riconoscimenti e privilegi (fra tutti un decreto firmato da Keitel e Rosenberg garantì ai cosacchi ricompense e zone di insediamento); questo fece in modo che, dopo la sconfitta di Stalingrado, molti seguissero i tedeschi in ritirata venendo impiegati nella lotta al movimento partigiano nell’Europa orientale (le tappe principali del ripiegamento furono Proskurov, Novogrudk, Baranovichi e Zdusnka Wola).

Le truppe cosacco-caucasiche giunsero in Friuli perché dal settembre 1943 la regione era divenuta parte dell’Operationzone Adriatisches Küstenland (OZAK), la Zona di operazioni del Litorale adriatico comprendente le province di Udine, Trieste, Gorizia, Pola, Fiume, Lubiana e del Quarnaro. Nella Zona era in corso un’intensa lotta ai movimenti resistenziali e fu deciso che le truppe collaborazioniste avrebbero partecipato all’eliminazione delle zone libere costituite nell’estate del 1944 e alla lotta alle bande organizzando dei presidi per controllare il territorio, le vie di comunicazione e per impedire la riorganizzazione del movimento partigiano. Di fatto fu concesso un territorio, denominato Kosakenland in Nord Italien, nel quale cosacchi e caucasici si stanziarono ricomponendo tutte le strutture istituzionali necessarie al loro sostentamento. Nonostante ciò sia stato interpretato da molta storiografia come la concessione di una vera e propria nuova patria, le autorità tedesche la ritennero una soluzione temporanea; è improbabile che pensassero di costituire uno stato cosacco ai confini del Reich, in un territorio sul quale avevano mire annessionistiche.

Al loro arrivo in Italia i reparti cosacco-caucasici furono riorganizzati e dopo alcune settimane vennero impiegati sotto il diretto controllo delle SS nell’operazione Klagenfurt contro i partigiani del Friuli orientale (settembre 1944). Quindi l’8 ottobre 1944 parteciparono all’operazione Waldläufer contro la Repubblica partigiana della Carnia e dell’alto Friuli. I rastrellamenti si svolsero in un clima di terrore; numerose furono le violenze contro la popolazione, una quindicina le vittime, molte le persone percosse e deportate in Germania. Furono commessi stupri, furti, incendi e saccheggi di interi paesi con danni ingentissimi. Dalla popolazione locale l’arrivo degli occupanti fu percepito come una violenta e inattesa depredazione che ricordava le invasioni barbariche o le incursioni turche dell’età moderna; l’arcivescovo di Udine le definì un «flagello di Dio». Don Graziano Boria, pievano di Verzegnis, nell’ottobre 1944 scrisse nel Libro Storico della sua pieve:

[il rastrellamento si sviluppò lungo la valle del Bût] seminando morte, incendi, violazioni, furti. […] È una masnada di uomini grandi e forti armati sino ai denti, a cavallo di buoni ed ottimi cavalli portati via alla Polonia.

 

Michele Gortani, equilibrato osservatore e protagonista di quei mesi, descrisse i cosacchi come «Una massa di uomini semiselvaggi, per natura spietati, cui era premio usuale il saccheggio, norma consueta il proprio capriccio, unica disciplina il combattimento» (M. Gortani, Il martirio della Carnia dal 14 marzo 1944 al 6 maggio 1945, Tolmezzo (Ud), «Carnia», 1966, p. 59).

Violenze tanto diffuse e indiscriminate furono dovute alla carica ideologica che guidava il loro modo di combattere; pesarono poi le pratiche di guerra totale mutuate dalle esperienze di repressione anti-partigiana che li videro protagonisti nelle retrovie del fronte orientale. I cosacco-caucasici compirono azioni rapide e risolutici, spesso senza operare distinzioni tra civili e combattenti; attuarono pratiche di sfruttamento indiscriminato del territorio, di annientamento e disumanizzazione del nemico. La loro forma di collaborazionismo fu senza scampo; sempre più lontani dalle zone di origine e dai sovietici – il nemico che volevano combattere – furono usati senza scrupoli dai tedeschi: molti militari caddero in una spirale di violenza che si auto-alimentò esacerbandosi quando divenne chiaro l’esito del conflitto.

Rilevante fu anche l’incidenza delle violenze sessuali che accompagnarono l’occupazione. Si registrarono circa 250 casi, una stima a ribasso date le difficoltà di reperire dati e denunce. Diffuse furono le violenze durante le operazioni militari, quando lo stupro divenne una delle tattiche per terrorizzare e umiliare il nemico, prendere possesso del territorio, esibire la superiorità e l’arbitrio dei vincitori, compiere uno sfregio su persone e comunità e utilizzare le donne come ulteriore campo di battaglia della guerra combattuta al fianco dei nazisti. Ma ulteriori violenze si registrarono negli otto mesi di occupazione come condotta criminale, pratiche di controllo del territorio, di rappresaglia e intimidazione.

 

Nei paesi rastrellati, spesso compiendo ulteriori efferatezze, sfollamenti e razzie, le truppe presero possesso del territorio friulano organizzando più di quaranta presidi distribuiti sull’intera regione. Dall’ottobre 1944 la Carnia divenne il cardine della zona occupata e poiché il contingente si articolava in due principali gruppi militari ed etnici distinti per tradizioni, usi e religione, si ebbero due zone di gestione distinte: la parte settentrionale della Carnia, comprendente i distretti di Paluzza, Forni Avoltri, Ravascletto e Paularo, fu gestita dai soldati caucasici ai comandi del generale Sultan Ghirey-Kitsch; la parte meridionale, in riferimento alle zone di Tolmezzo, Verzegnis, Villa Santina, Ampezzo e Forni di Sotto, fu occupata dai cosacchi dell’atamano Domanov; i contingenti cosacchi furono a loro volta divisi per provenienza geografica nel 1º reggimento di cavalleria, 1º e 2º reggimento del Don, 3º reggimento del Kuban, 4º reggimento del Terek-Stavropol, ai quali si affiancavano i reparti di riserva e i servizi logistici. Un presidio di militari e civili georgiani si acquartierò a Comeglians. A Tolmezzo trovarono sede i maggiori organi amministrativi cosacchi e tedeschi; furono poi organizzati presidi, comandi e accademie militari, scuole, tribunali, ospedali, tipografie, teatri e luoghi di culto. Nel febbraio del 1945 giunse da Berlino l’atamano Krasnov, acceso oppositore del bolscevismo e vertice dell’Amministrazione centrale degli eserciti cosacchi. Altri contingenti furono stanziati a Tarcento, Nimis, Faedis, Cividale, Gorizia e in alcune località del basso Friuli e della Pedemontana; distaccamenti di profughi cosacchi furono destinati a San Daniele del Friuli, Buja, Majano e alla Val d’Arzino.

In questo quadro le milizie cosacco-caucasiche e la loro popolazione attuarono diverse modalità di insediamento che furono funzionali al controllo del territorio, della popolazione e alla repressione del movimento resistenziale. I paesi di Alesso, Bordano e Trasaghis furono completamente evacuati per far posto ai cosacchi e furono ribattezzati Novočerkassk, Krasnodar e Novorossiysk; ciò portò un uso indiscriminato delle risorse pubbliche e private, saccheggi e devastazioni. Altri borghi videro invece la coabitazione fra occupanti e locali; si trattò di una convivenza forzata e non facile che sottopose la popolazione a pericoli e vessazioni. Nei rimanenti casi, specie nei centri più importanti, i cosacco-caucasici occuparono edifici pubblici quali caserme, scuole e asili. L’impatto quantitativo dell’occupazione sul territorio fu considerevole; le stime più attendibili attestano che nella tarda estate del 1944 il contingente cosacco-caucasico comprendeva circa 20.000 persone tra civili e militari; progressivamente, con un picco di arrivi nell’autunno del 1944 e con cifre minori nei mesi successivi, giunse a 30-35.000 unità con un numero imponente di carriaggi e cavalli. 

Nei luoghi di insediamento i cosacco-caucasici posero in atto uno stretto controllo degli abitanti che comportò forti limitazioni di movimento, ispezioni e arresti ai quali seguirono nuovi saccheggi e furti. Rappresaglie (con devastazioni e incendi di stavoli, malghe e case), rastrellamenti, minacce e perquisizioni cercarono di stroncare ogni opposizione dando tragici esempi alle comunità. Ciò avvenne con un rapporto bivalente che per i cosacco-caucasici fu allo stesso tempo di sorveglianza e di dipendenza dalla popolazione locale. Nei mesi di occupazione militari e civili sfruttarono il territorio per quel che offriva e, spesso a discapito della popolazione locale, cercarono di sfamare, dare alloggio e garantire sicurezza a una massa di militari e civili.

Un ulteriore problema che incise sulle possibilità di sussistenza fu rappresentato dal fieno. Le truppe di occupazione necessitavano di notevoli quantità di foraggi per i circa 4-6.000 cavalli al seguito; l’approvvigionamento cadde totalmente sulle spalle della popolazione locale mentre la scarsa produzione dovuta alla guerra e alle requisizioni mise a repentaglio l’alimentazione degli animali locali, una delle principali risorse di sostentamento. I danni nel lungo periodo furono ingenti e non meno gravide di conseguenze furono le devastazioni dei campi e dei raccolti operate tra la tarda e estate e l’autunno 1944.

Nei mesi di insediamento si ridisegnò dunque la geografia di un territorio distinto tra occupanti, popolazione e partigiani nel quale i mondi inconciliabili del “bosco” e dei presidi e comandi cosacco-caucasici plasmarono una peculiare percezione del nemico, della sicurezza e dell’andamento del conflitto.

Va inoltre considerato che la coabitazione fra cosacco-caucasici e locali lasciò un segno profondo, anche nello stratificarsi della memoria. La convivenza fu un trauma, non solo per i pericoli personali, i disagi materiali o le difficili condizioni igieniche che portarono anche alla diffusione di malattie. Le case, elementi identitari nella cultura friulana, divennero un terreno quotidiano di confronto e di scontro, un baluardo della difesa delle prerogative personali e comunitarie. Specie nei paesi di fondovalle occupati più a lungo, fu necessario negoziare e rinegoziare gli equilibri mentre nell’inverno 1944-1945 continuarono rastrellamenti, intimidazioni, arresti, furti e anche stupri.

Va precisato che in questi contesti la costrizione alla convivenza portò a numerosissime tensioni, ma anche a tentativi di convivenza o avvicinamenti; quella che per i civili di ambo le parti può essere definita una comprensione fra povera gente, fra vittime della guerra, condusse all’incontro tra preti e popi, fra popolazioni (soprattutto fra i più giovani) e autorità militari. Ma va comunque distinto il piano della popolazione nelle diverse generazioni con i reali rapporti di forza, tenendo conto del contesto materiale e delle violenze che i locali continuarono a subire per tutto il periodo di occupazione.

 

L’occupazione cosacco-caucasica terminò nei primi giorni del maggio 1945, quando il contingente militare seguito dalla propria popolazione intraprese una dura ritirata verso i centri di Lienz e Oberdrauburg. Qui avvenne la resa agli Alleati. Secondo gli accordi stipulati nella conferenza di Yalta, i reparti cosacco-caucasici vennero consegnati all’Unione Sovietica. Anche se l’evacuazione degli ufficiali fu separata dal resto degli uomini e dei civili, consci di quanto sarebbe accaduto al ritorno in URSS molti misero in atto forme attive e passive di resistenza; alcuni tentarono la fuga, altri si suicidarono. Complessivamente furono consegnati oltre 23.000 cosacchi e caucasici; la gran parte degli ufficiali morirono nei gulag e tutti i leader del movimento collaborazionista furono giustiziati.

Questa vicenda rappresenta un unicum nella Seconda guerra mondiale e ha lasciato una traccia profonda in Friuli per l’impatto militare, economico, politico, sociale e anche emotivo che ha comportato. Non sorprende che abbia ispirato anche alcune opere letterarie, tra le quali si possono ricordare Illazioni su una sciabola di Claudio Magris, L’armata dei fiumi perduti di Carlo Sgorlon e Carnia Kosakenland Kazackaja Zemlja: Storiutas di fruts ta guera di Leonardo Zanier.

Articolate si presentano anche le memorie che si sono stratificate. I cosacco-caucasici sono stati avvertiti come altri, diversi, estranei rispetto alle comunità locali; il loro passaggio è stato percepito come doloroso, ma breve e concluso; in questo contesto ha contato il trauma dell’occupazione e della convivenza forzata, gli eventi di prevaricazione e rapina dei quali la popolazione fu la vittima, la violenza e la brutalizzazione della condotta nel contesto bellico in una guerra totale che investì partigiani e civili. Ma sono presenti anche memorie che guardano agli occupanti, specie alla loro popolazione, come puare int [povera gente] con una visione fortemente retrospettiva maturata nel dopoguerra che ha tenuto insieme, oltre alle dinamiche dell’occupazione, anche la consegna di militari e civili cosacco-caucasici ai sovietici operata nel giugno del 1945. Affatto secondario in molte narrazioni e memorie è quello che si può definire il mito del “buon cosacco”, ovvero una prospettiva indulgente sulla condotta degli occupanti (che ha fatto passare in secondo piano persino il fatto che combattessero con i nazisti); essa ha risentito della fascinazione esercitata dalla cultura e dai caratteri esotici della vicenda, si è focalizzata sugli aspetti di folklore e ha dimostrato scarsa (o nulla) inclinazione a considerare gli episodi di violenza; talvolta si è appiattita su episodi circostanziati e, ovviamente, si è nutrita delle esperienze e dei sentimenti personali; in qualche occasione ha fatto sponda anche a intenti denigratori, faziosi o negazionisti.

Guardando complessivamente all’occupazione va considerato che l’impatto dalle truppe e dalla popolazione cosacco-caucasica fu devastante. Gli occupanti depredarono e sfruttarono un territorio povero (lo era già prima del conflitto) e ulteriormente depauperato nelle risorse principali dalla situazione creata dalla guerra. Il Friuli e la Carnia in particolare furono affamati dalla sospensione dell’invio di generi di prima necessità stabilita dai tedeschi nell’estate del 1944 per fiaccare la Resistenza; i rifornimenti non vennero ripresi subito dopo l’esperienza dalla Repubblica partigiana, almeno non completamente, e la situazione di precarietà si prolungò per mesi; quello montano rimase un contesto sovra-popolato, povero di risorse e isolato.

In questo contesto i cosacchi-caucasici misero in atto dal loro arrivo sino alla fine dell’aprile 1945 azioni e rastrellamenti che provocarono nuove devastazioni e isolarono ulteriormente la zona. Esse erano funzionali alla strategia di contrasto al movimento di liberazione e furono attuate per togliere basi e appoggi ai partigiani; i reparti collaborazionisti si lasciarono alle spalle una scia di morte e devastazione sino alle fasi finali del conflitto (caso emblematico fu la strage di Ovaro del 1° e 2 maggio 1945) in zone già duramente segnate dalla guerra e dalle violenze nazi-fasciste con stragi, incendi di interi paesi e devastazioni.

Tutti questi fattori causarono difficoltà di sostentamento nell’inverno 1944-1945 e tali criticità vennero aggravate dalle continue richieste di generi alimentari e foraggi formulate dagli occupanti e dalle requisizioni arbitrarie. L’intera economia montana rischiò il collasso mentre le condizioni sanitarie erano al limite anche per le difficoltà in cui versavano le strutture sanitarie.

L’occupazione cosacco-caucasica rappresentò una sorta di cappa che frustrò gli slanci libertari e democratici emersi nella popolazione e nella Resistenza friulana nell’estate del 1944. L’arrivo degli occupanti influì nel rapporto fra residenti e partigiani; nell’ottobre 1944 si registrò infatti punto più basso nei rapporti fra i due soggetti; la popolazione fu pesantemente colpita e aleggiò un sentimento di stanchezza per le privazioni che il conflitto comportava mentre emersero sentimenti attendisti e di rivalsa.

La violenza e le devastazioni portate dalle truppe cosacco-caucasiche investirono trasversalmente la società friulana rappresentando un’esperienza tragica e dolorosa, ma accomunarono anche i destini e crearono solidarietà nelle comunità; non vi fu famiglia che non fosse stata toccata direttamente o indirettamente dall’occupazione e ciò avvenne a partire delle abitazioni, un luogo identitario per le popolazioni friulane. I cosacco-caucasici, anche se tra i primi, non furono i soli responsabili della drammatica situazione del Friuli. Di certo la aggravarono.

 

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