Inquisizione

Età moderna



Scarica il PDF

di Gianna Paolin

Nei secoli dell’età moderna anche nei territori dell’Alto Adriatico ebbe un peso non trascurabile il tribunale dell’Inquisizione. Questa istituzione è avvolta da un alone molto cupo e spesso affascina grazie a film e libri più o meno accurati nella correlata ricostruzione storica. La procedura inquisitoriale si era andata formalizzando nel corso del Medioevo come risposta della Chiesa al diffondersi di quelle che venivano considerate eresie, un pericolo quindi per il corpo unitario del cattolicesimo romano. Con l’avvento nel primo Cinquecento della Riforma e con il diffondersi delle nuove chiese evangeliche la Chiesa cattolica si trovò a rispondere con il Concilio tridentino e con la riorganizzazione inquisitoriale. Nacque così nel 1542 la nuova Inquisizione romana, che faceva seguito a quanto era già avvenuto in Spagna e Portogallo, ma era dipendente da una congregazione romana da cui si irradiava gerarchicamente nelle diverse diocesi. Il tribunale medievale fu ripensato e riorganizzato e via via si costruì una rete di giudici e si affinarono le già esistenti procedure inquisitoriali, che consentivano di intervenire sia su denuncia sia per decisione autonoma del giudice, per fama. Si perfezionò il diritto alla difesa e nel tempo prese sempre più peso sia l’aiuto, esterno, di legali e quello interno di medici, specie in caso di tortura, meno frequente nei processi friulani di quanto viene immaginato comunemente.

Non tutti i sovrani accettarono l’Inquisizione nei loro territori e altri dovettero piegarsi. Venezia in particolare si trovò ad ammetterla nei suoi territori, pur con qualche remora. Un problema aggiuntivo era rappresentato dall’esecuzione delle eventuali sentenze che comportavano il ricorso al braccio delle autorità civili. Nel caso di esecuzioni capitali questo provocò talora dei momenti di imbarazzo politico e giuridico, in genere risolto a favore dell’autorità ecclesiastica, come pure ci poterono essere dei problemi davanti alla richiesta di alcune estradizioni di imputati alla corte romana, molto delicate anch’esse.

Fino al 1751 il patriarca di Aquileia, residente in realtà a Udine, governava una vastissima diocesi ed aveva il rango di metropolita, cui facevano riferimento molti altri vescovi. Dopo la conquista veneziana del Friuli (1420) il patriarca ebbe sempre molta difficoltà nel governare la parte diocesana posta nell’ambito imperiale. Un’altra diocesi in Friuli era quella di Concordia, la cui sede fu traslata nel Cinquecento a Portogruaro. Nei territori del Friuli soggetti alla Serenissima il tribunale dell’Inquisizione, affidato stabilmente all’ordine francescano conventuale, poté agire dal 1556 fino al 1806, ricordando comunque che alcuni processi contro imputati di eresia erano stati tenuti precedentemente dal vicario patriarcale e prima ancora da altre autorità. Il tribunale d’Inquisizione udinese operò con continuità ed ebbe per alcuni periodi anche il titolo di Concordia venendo unificate le due sedi. L’inquisizione però non poteva agire nel territorio governato dagli Asburgo, che rifiutavano una così forte e diretta giurisdizione romana sui propri sudditi. Gorizia e Gradisca erano così libere da questo tribunale, come pure Trieste, la cui diocesi aveva solo un breve tratto, ad esempio Muggia, in territorio veneto, per cui lì si poteva inquisire da parte del tribunale più vicino, ovvero quello di Capodistria. Anche nella penisola istriana infatti esisteva un problema similare, divisa com’era tra due realtà politiche nemiche tra loro. L’Inquisizione quindi poteva agire solo nelle zone costiere soggette a Venezia.

Una zona con una situazione del tutto particolare, pur nel territorio della Serenissima, fu quello della fortezza di Palmanova, dove confluivano militari di ogni provenienza tutelati in qualche modo nelle loro diversità per le necessità di difesa del vicino confine. Possiamo pensare che fossero ben lieti quanti si trovavano esenti, come a Trieste, dalla pressione di quei giudici. In realtà, dove non poteva agire il tribunale romano avrebbe potuto agire il giudice primo, ovvero il vescovo, e magari il nunzio pontificio, ma il clima politico non era favorevole a qualsiasi intervento che sapesse d’Inquisizione, specie in una piccola ma riottosa città, forte del fatto di essere uno scalo prezioso, come pure nel goriziano, territorio negato al controllo patriarcale.

Non va poi dimenticato il ruolo importantissimo svolto dalla censura sulla produzione e circolazione della stampa, cosa che risultò pesantissima in una città come Venezia, centro culturale vivacissimo e sede di notevoli stamperie. I giudici poterono filtrare la produzione libraria e perseguire quanti fossero trovati in possesso di testi proibiti o volessero commerciarli. Fu interdetta la Bibbia in volgare e divenne pericoloso detenere i testi di Erasmo, Lutero, Calvino e di tanti altri autori considerati pericolosi. Fu una scelta che segnò profondamente anche la stessa cultura religiosa dei territori dove poté agire.

Nel Seicento l’organizzazione inquisitoriale si fece ancor più efficace sul territorio con la presenza di vicari foranei e, soprattutto, grazie al forte coinvolgimento dei confessori, obbligati a loro volta ad interrogare i penitenti non solo sulle colpe personali ma anche sulla loro possibile conoscenza di altri sospetti in materia di fede, costringendoli a denunciare, pena il rifiuto dell’assoluzione, cosa che li avrebbe resi coinvolti a loro volta come complici.

L’azione inquisitoriale, affiancata dall’opera pastorale del clero secolare e dei diversi ordini religiosi, riuscì a fronteggiare il diffondersi delle nuove idee, che solo limitatamente poterono agire con attente coperture. Fu proprio il costume della dissimulazione a consentire un pur molto limitato margine di resistenza all’omologazione. Infatti poté insinuarsi una sorta di abitudine al controllo e si apprese il modo meno pericoloso per affrontare il tribunale inquisitoriale, un sistema assolutamente non nuovo, presentandosi spontaneamente e confessando con cautela la propria colpa, vedendosi così accolti e perdonati con minime penitenze, in una sorta di tacito accomodamento tra giudici e imputati. Questo fu evidentissimo a metà Seicento quando si diffusero anche qui i libri libertini, proibiti dalla censura romana, e si assistette a continui accomodamenti tra fedeli e tribunale. Anche questo però non poté non lasciare una pesante eredità spirituale e culturale.

L’attività dei tribunali inquisitoriali ci ha lasciato una preziosa documentazione, che svela moltissimo sulle idee, sui costumi di quei decenni. Fortunatamente si è conservata una ricca serie di fascicoli, con processi e corrispondenze, presso l’Archivio Storico Diocesano della Curia Arcivescovile di Udine, oltre a qualche carta presso quello corrispondente della diocesi di Concordia-Pordenone, un’importante mole di documentazione è poi conservata nel fondo Santo Uffizio dell’Archivio di Stato di Venezia. Sempre in quest’ultima sede sono conservati molti fascicoli riguardanti l’Istria.

Per l’Inquisizione di Aquileia e Concordia, per tutto l’arco temporale di attività, gli studiosi hanno calcolato ben 4.089 persone di cui ci è giunta testimonianza che vennero indagate. Questo numero permette di comprendere efficacemente l’impatto che ebbe questa istituzione su questi territori. Chiaramente la maggiore attività si ebbe entro la metà del Seicento, con solo tre casi conclusi con una sentenza capitale eseguita in Friuli. Queste zone erano poste al confine, come già ricordato, tra i territori veneti, quelli asburgici e il grande mondo balcanico. Venezia e Padova erano centri attrattivi per tutti gli intellettuali e da ogni dove giungevano mercanti e operatori portando notizie e curiosità, idee e libri. La comunità ebraica era importantissima e così pure lo era quella greca, accanto a gente la più varia. Qui venivano a studiare i giovani anche dal Friuli e qui si veniva a comperare libri e frequentare circoli.

Ma la regione era anche attraversata dalle correnti di traffico verso i territori tedeschi e scambiava con le terre vicine. Oltre confine si andava a trafficare ed a lavorare, magari inviando i figli ad imparare la lingua ed i mestieri. Da diverse linee di comunicazione potevano quindi arrivare le nuove idee religiose e radicarsi tra le famiglie di Udine e degli altri centri, come ci suggeriscono processi importanti come quelli contro le clarisse di Udine, un caso che si protrasse per decenni. A dirlo così può suonare come un affare limitato ad un ambiente monastico, un caso di religiose insoddisfatte, mentre gli incartamenti relativi al loro caso, che spaziò nel Cinquecento per ben più di mezzo secolo, ci consentono di capire come la società colta friulana resistesse alla normalizzazione inquisitoriale e fosse addirittura in grado di tenere in scacco patriarchi e giudici, mantenendo una stretta relazione con i dibattiti che ancora correvano nella città lagunare e nell’ateneo patavino. Un altro caso eclatante sul finire del Cinquecento fu quello di un mugnaio del Friuli occidentale, Domenico Scandella, detto il Menocchio, un caso molto studiato e suggestivo per la forza morale dell’imputato che fino alla morte atroce difese le sue idee, che ci parlano del fervore intenso di quell’anima impegnata a rivendicare il proprio diritto a pensare autonomamente.

Passata la più vivace stagione che aveva visto nel Cinquecento il diffondersi delle nuove idee, anche quelle più radicali degli anabattisti, perseguitati da tutti, anche dagli imperiali, l’attenzione del tribunale si appuntò su altri problemi, che vennero considerati a loro volta pericolosi per la fede, prima di tutto la magia e le diverse superstizioni. In regione non si ebbero episodi paragonabili alle persecuzioni contro le streghe conosciute per altre zone. Però si moltiplicarono le cause per questo reato, anche grazie all’azione di confessori e predicatori. Un caso particolare e molto noto fu quello dei benandanti, che si presentavano come protettori dei raccolti minacciati dalle forze demoniache, benandanti che non erano specifici del Friuli, ma erano ben conosciuti in Istria, detti anche viandanti, e in altre zone contermini. La magia in genere doveva essere estirpata e solo alla Chiesa andavano rivolte le richieste dei fedeli di protezione contro i tanti problemi del vivere. Un’altra lotta si aprì contro i comportamenti devianti di quei confessori che tentavano i penitenti approfittando dell’intimità del confessionale, così pure contro i casi di cosiddetta falsa e pretesa santità. Quest’ultima casistica produsse nella prima metà del Seicento un processo, con una mole impressionante di carte, contro una sandanielese, Marta Fiascaris, che stentò moltissimo a piegarsi all’abiura e che coinvolse altre donne, fino a Trieste, nel suo sogno. Il problema era in generale spinosissimo perché la Chiesa, per contrastare il richiamo riformato alla libera lettura della Scrittura, aveva puntato molto su un’intensa pratica devozionale, supportata da liturgie arricchite e curate e da predicazioni di intensa emotività. Tra i fedeli, specie tra le donne, fece larga presa una religione impregnata di mistica, che rappresentava anch’essa un pericolo per l’istituzione ecclesiastica con la fortissima spinta a superare ogni laccio istituzionale per lanciarsi direttamente nel fuoco del divino.  

Anche l’Istria fu al centro di casi clamorosi, primo tra tutti quello contro il vescovo di Capodistria Pier Paolo Vergerio, il cui processo coinvolse molti e segnò fortemente la città, che forse non a caso insorse violentemente alla morte del successore del presule, un domenicano suo oppositore, devastando il vescovado. L’attività repressiva coinvolse soprattutto le città costiere, da Capodistria a Pirano a Pola. Dignano conobbe molti casi, ancora non ben noti, mentre il ricordo di personaggi di rilievo, come gli albonesi Baldo Lupetino e Matija (Matthias) Vlacic, conosciuto anche come Flacio Illirico, o il piranese Giovanni Battista Goineo, ci dicono quanto vivace fosse anche qui il dibattito religioso, cui seguì una dura repressione e la fuga di tanti verso il vicino confine amico. Le terre istriane erano in particolare interessate da un’importante complessità etnica e linguistica, che poteva favorire i predicatori evangelici che portavano un culto, dei testi sacri, nelle lingue volgari, pur esistendo, mal tollerata, anche una liturgia cattolica in schiavetto. Anche in queste terre così complesse l’Inquisizione e l’opera dei vescovi si impegnarono, con successo, nella repressione del dissenso che dovette essere importante, anche se la scarsa documentazione superstite ha cancellato la memoria di troppi tra quanti furono indagati e perseguiti. Per l’Inquisizione di Capodistria, competente per tutto il territorio, purtroppo non abbiamo un archivio organico come quello di Udine e la stessa ricostruzione della corretta serie dei giudici pone dei problemi. Complessivamente sono per ora noti solo 112 fascicoli processuali e ci possiamo basare soltanto su quanto è conservato a Venezia e su non molte carte sparse in altre sedi, come nell’Archivio della Congregazione per la Dottrina della Fede e nell’Archivio storico diocesano di Trieste.  

 

Bibliografia essenziale

Del Col A., L’Inquisizione in Italia dal XII al XXI secolo, Mondadori, Milano 2006.

Del Col A. (a cura di) L’Inquisizione del Patriarcato di Aquileia e della diocesi di Concordia. Gli atti processuali, Istituto Pio Paschini – Eut, Udine-Trieste 2009.

Minchella G., “Porre un soldato all’Inquisizione”. I processi del Sant’Ufficio nella fortezza di Palmanova, 1595-1669, Eut, Trieste 2009.

Ancona G., Inquisizione in Istria nel XVI secolo, in “Quaderni giuliani di storia”, 2020, 2.


Della stessa tematica