Gli accordi di Osimo (Diritto internazionale)

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di Giorgio Conetti

1. Gli Accordi del 1975 e la loro attuazione.

Il 10 novembre 1975 presso Osimo (Ancona), i ministri degli Esteri di Italia e Jugoslavia sottoscrivevano un insieme di accordi. I due atti principali, denominati Trattato e Accordo per la promozione della cooperazione economica, avevano intenti differenti: il primo era inteso a risolvere le questioni ancora pendenti tra i due Stati; il secondo, con carattere largamente programmatico, poneva il quadro per lo sviluppo di futuri programmi coinvolgenti comuni prospettive di collaborazione in diversi campi. Ai due testi principali si univano numerosi allegati, dieci al primo e quattro al secondo. Gli Accordi, redatti in lingua francese, unica loro versione Il 10 novembre 1975 presso Osimo (Ancona), i ministri degli Esteri di Italia e Jugoslavia  autentica, entravano quindi in vigore   con lo scambio delle ratifiche, una volta espletate le relative procedure interne, il 3 aprile 1977.

Il Trattato, con formule intese a evitare e superare le passate controverse qualificazioni, fissava la frontiera tra Italia e Jugoslavia per le parti non indicate come tali dal Trattato di pace del 1947, in pratica riferendosi ai limiti della già zona A del TLT (All.i I e II). Risolta la questione confinaria terrestre, il Trattato poteva disporre in corrispondenza ad essa il confine marittimo tra i due Stati nel golfo di Trieste, secondo una linea mediana equidistante dalle rispettive coste sino al punto di inizio della linea di delimitazione della piattaforma continentale, già fissata con l'accordo dell'8 gennaio 1968. Le Parti assumevano, ciascuna separatamente, di aver corrisposto, così concordando, ai principi posti dalla Convenzione di Ginevra del 1958 sul mare territoriale, allora tra loro vigente, benché non appaia si sia tenuto conto, se non per minori correzioni destinate ad agevolare il transito navale verso il porto di Trieste, di circostanze speciali, come consentito dalla Convenzione (All.i III, IV eV).

Anche in materia di cittadinanza dei residenti nelle zone già destinate al TLT le formule del Trattato evitavano di evocare  difformità e conflitti di qualificazione sulla condizione delle persone, attribuendo piena  e esclusiva competenza in merito alla legislazione dello Stato di residenza al momento dell'entrata in vigore del Trattato (Art. 3).In tal modo non veniva contestata la assimilazione alla cittadinanza jugoslava già operata nei confronti dei residenti nella zona B e il mantenimento della cittadinanza italiana per i residenti nella zona A. Per tali soggetti si dava la facoltà di trasferirsi in Italia, se appartenenti al gruppo etnico italiano e in Jugoslavia, se del gruppo etnico jugoslavo, secondo modalità fissate dall'All. VI, che prevedeva, a tale scopo, il termine di un anno dall'entrata in vogare del Trattato e sottoponeva il trasferimento alla previa qualificazione di appartenenza etnica ad opera delle autorità del paese di destinazione. Il trasferimento comportava l'acquisto della cittadinanza del paese di accoglienza e la perdita di quella del paese di provenienza, la Jugoslavia consentendo tuttavia che l'Italia considerasse che gli optanti provenienti alla zona B non avessero mai perduto la cittadinanza italiana. Lo spostamento delle persone in pratica appariva anche costituire un correttivo alla presumibile futura non soddisfacente tutela dei gruppi minoritari, stante che il Trattato, all'art.8, disponeval'abrogazione dello Statuto speciale sui diritti degli appartenenti ai due gruppi etnici, allegato al Memorandum di Londra del 1954, pur impegnando le parti a conservare in vigore le misure già poste in sua attuazione e a mantenere il livello di protezione da questo previsto. Così disponendo, Italia e Jugoslavia riportavano la materia della condizione delle minoranze entro i rispettivi ordinamenti interni, evitando una sua disciplina con reciproche garanzie convenzionali.

Agli optanti era dato di trasferire senza oneri i propri beni mobili e i fondi finanziari che risultassero dalla vendita di beni mobili e immobili. Quanto ai beni già di proprietà di persone fisiche o giuridiche italiane nella zona B, oggetto di misure di espropriazione o nazionalizzazione  da parte delle autorità jugoslave, ma non considerati dal regime dei beni nei territori ceduti con il Trattato di pace,  il Trattato rinviava la fissazione di  un indennizzo globale e forfettario a un successivo accordo, non escludendo che in dati casi si lasciassero dei beni immobili, rimasti in amministrazione di familiari, in disponibilità agli aventi diritto (Art.4). L'accordo previsto veniva quindi concluso a Roma il 18 febbraio 1983, fissando nella misura di 110 milioni di dollari l'indennizzo forfettario dovuto dalla Jugoslavia, da liquidarsi ratealmente, a partire dal 1990.

L' Accordo per la promozione della cooperazione economica, dato il suo prevalente carattere   di quadro programmatico, doveva attuarsi progressivamente con ulteriori intese o attraverso l'opera di commissioni miste, riunioni a carattere permanente di organi dei due Stati, ove potevano raggiungersi accordi tecnico-amministrativi in forma semplificata. I campi di principale interesse per la cooperazione concernevano l'idroeconomia, con speciale riguardo alla regolazione dei bacini dell'Isonzo, Judrio e Timavo e alle forme di difesa ambientale, utilizzazione agricola e industriale delle acque, per le quali materie si  istituiva una Commissione mista permanente per l'idroeconomia; le comunicazioni stradali, tra l'altro con la previsione di un collegamento in territorio italiano, ma sotto amministrazione jugoslava, tra le regioni jugoslave del Collio e di Salcano; la cooperazione tra i porti dell'Alto Adriatico; la protezione del mar Adriatico dagli inquinamenti, per la quale già nel 1974 era intervenuto un accordo  istituendo un'apposita commissione e, più in generale, gli scambi commerciali, il trasferimento di tecnologie, la cooperazione industriale e nella ricerca.

Il principale e più originale contenuto dell'Accordo si rinveniva nella previsione di una Zona franca (Zone libre), cui si conferivano territori limitrofi dei due Stati, destinata ad ospitare, in regime di extraterritorialità doganale, stabilimenti produttivi, prevalentemente a carattere industriale (Art.1). La materia, particolarmente complessa, era quindi ampiamente regolata dal Protocollo sulla zona franca (All.I), che, fissati i limiti della stessa, assumeva trovarsi fuori dal territorio doganale dei due Stati beni e  merci ivi introdotti e la attività di  trasformazione che vi si svolgesse, disponendo per l'uscita delle merci il regime dei Punti franchi diTrieste, ove destinate al territorio della Comunità Europea, il regime doganale jugoslavo se destinate a quel territorio e le regole doganali dei paesi terzi se destinate a questi ultimi. La disciplina dei rapporti di lavoro, le materie fiscali e monetarie, i diritti sui beni mobili dovevano essere sottoposti alla legge del paese di sede dell'impresa interessata, ovunque si svolgesse la sua attività entro la Zona, ma i diritti sugli immobili sarebbero rimasti regolati dalla legge del luogo di situazione.

L'amministrazione della Zona era attribuita a un Comitato misto, figura poco consueta di organo comune di attività interna, stante che l'efficacia dei suoi atti era destinata a prodursi negli ordinamenti di entrambi gli Stati. Una diversa Commissione temporanea avrebbe, in via preliminare, provveduto alla configurazione precisa dei terreni assegnati alla Zona e una decisione in merito veniva raggiunta dalle presidenze delle due delegazioni l'11 novembre 1978. Questa destinazione non aveva quindi seguiti né veniva costituito il Comitato permanente di amministrazione della Zona o adottati altri atti, sotto pressione di un vasto movimento di opinione pubblica locale contrario, per una varietà di motivazioni nazionali, sociali, ambientali, economiche, alla realizzazione del progetto. Il movimento sfociava nella formazione di una forza politica (Lista per Trieste), risultata di maggioranza relativa nelle elezioni per il  Comune di Trieste del giugno 1978 e capace di svolgere un efficace ruolo di interdizione, rivelatosi decisivo.

 

2. La successione di Slovenia e Croazia negli Accordi.

Dopo un periodo di incertezza, a fronte del consolidarsi e dell'irreversibilità della  situazione prodotta dalla dissoluzione della Jugoslavia e  della conseguente formazione  di nuovi Stati indipendenti, gli Stati membri dell'Unione Europea  raggiunsero, il 15 gennaio 1992, una  posizione comune per il riconoscimento di Slovenia e Croazia, in ciò guidati  dai pareri espressi dalla Commissione di Arbitrato per la ex Jugoslavia (Commissione Badinter), e dalle linee direttrici per il riconoscimento di  nuovi Stati in Europa orientale e Unione Sovietica. Si richiedeva loro, quali condizioni, il rispetto delle frontiere internazionali esistenti, l'accoglimento dei valori dello stato di diritto e dei diritti fondamentali dell'uomo, la tutela delle minoranze, il mantenimento degli impegni internazionali già assunti, la soluzione pacifica e negoziale delle questioni poste dalla successione tra Stati.

Non  ponendosi  alcuna questione sulla permanenza  delle frontiere terrestre e marittima tra Italia, Slovenia e Croazia, derivante da un principio  generalmente accolto del diritto internazionale per la stabilità delle frontiere anche in caso di successione di Stati nella sovranità territoriale, il governo italiano riteneva  di accogliere le dichiarazioni unilaterali dei due  nuovi Stati a favore del loro subentro, per quanto di pertinenza, nei trattati bilaterali  già conclusi tra Italia e Jugoslavia, in maniera generica da parte della Croazia, con un'elencazione dettagliata  degli accordi considerati da parte della Slovenia.

Nonostante alcune istanze politiche a favore di una denuncia o richiesta di revisione almeno di determinati accordi, il governo italiano si determinava in tal senso assumendo di corrispondere ad una consuetudine internazionale generale a favore della successione automatica nei trattati in ipotesi di formazione di nuovi Stati a seguito di un processo di secessione, quale recepito nella  Convenzione di Vienna del 1978 sulla successione degli Stati nei trattati, benché l'Italia non ne fosse parte contraente, e ritenendo che la loro contestazione avrebbe creato un vuoto giuridico nelle relazioni con gli Stati successori, così compromettendo rapporti di buon vicinato e cooperazione già consolidati. Un tale rischio era particolarmente avvertito nelle regioni italiane del Nord-Est, Friuli-Venezia Giulia, Veneto e Trentino-Alto Adige, che, già il 5 dicembre 1991, avevano raggiunto un'intesa per lo sviluppo di rapporti economici con Slovenia e Croazia.

Nelle comunicazioni presentate alla Camera dei deputati dal Ministro degli Esteri Colombo, il12 novembre 1992, dopo la riaffermazione della necessità della condotta seguita dal governo italiano per  garantire la certezza del diritto, si assumeva che la continuità dei trattati avrebbe costituito la base giuridica per la loro revisione, richiesta dal mutamento delle circostanze, laddove alcuni dei loro contenuti potevano già ritenersi superati e caducati, in specie il regime della progettata Zona franca, in pratica non attuato e di cui il governo italiano non intendeva dare attuazione. D'altronde il Protocollo sulla Zona franca, All.I all'Accordo di Osimo, non risultava tra gli atti elencati nella dichiarazione di successione della Slovena e la mancata attuazione nel tempo delle norme relative poteva configurare una loro abrogazione tacita per univoci comportamenti degli Stati interessati.

Nelle comunicazioni del governo, due principali materie venivano poste in evidenza come suscettibili di revisione: l'indennizzo o il recupero dei beni di cittadini italiani e la condizione della minoranza italiana che, a seguito della dissoluzione della Jugoslavia, veniva ad essere divisa tra Slovenia e Croazia. La preoccupazione per tale situazione aveva immediatamente indotto il governo italiano a sollecitare, già il 15 gennaio 1992, la adozione di un Memorandum con l'impegno dei tre Stati a concludere trattati bilaterali sulla tutela della minoranza italiana, per confermare la unità e uniformità di trattamento, la garanzia dei diritti acquisiti, la libertà di movimento per gli appartenenti alla stessa e di lavoro nelle sue istituzioni rappresentative. Il Memorandum veniva sottoscritto dalla sola Croazia, laddove il governo sloveno, pur impegnandosi a mantenere le misure di protezione già disposte, se ne asteneva, non ottenendo soddisfacente assicurazione di reciprocità per la tutela globale della minoranza slovena in Italia.

La situazione normativa era complessa, mancando norme di fonte pattizia vincolanti le parti dopo l'abrogazione, con il Trattato di Osimo, dello Statuto speciale speciale allegato al Memorandum di Londra sui diritti degli appartenenti ai due gruppi etnici. Valeva tuttavia sempre, per gli Stati successori, l'obbligo, assunto con il Trattato, di mantenere in vigore le misure già poste in attuazione dello Statuto dalla Jugoslavia e il generale rispetto dei suoi contenuti, concernente i residenti della zona B del TLT, quindi in pratica l'intera minoranza italiana presente in Slovenia, ma solo una parte di quella residente in Croazia.

Il trattato previsto con la Croazia veniva concluso, a Zagabria, il 5 novembre 1996, ottenendosi l'impegno croato di garantire alla minoranza italiana, di cui si riconosceva il carattere autoctono e unitario, il rispetto dei diritti acquisiti e a estendere gradualmente il regime garantito ai residenti nella zona B al resto del territorio di insediamento della minoranza per ottenere, al più alto livello, uniformità di trattamento. A fronte di questi impegni, una limitata reciprocità  era concessa alla Croazia con la garanzia di consentire alla  minoranza croata in Italia,  nel suo tradizionale territorio di insediamento, il mantenimento della propria identità e cultura, l'impiego della propria lingua nei rapporti privati e la conservazione delle sue istituzioni e associazioni culturali; diritti questi, in fatto a favore di un'esigua popolazione croata storicamente insediata in Molise, già derivanti dall'applicazione delle norme costituzionali e quindi dalla legge 15 dicembre 1999, n.482, sulla tutela delle minoranze linguistiche storiche.

Quanto alla minoranza slovena in Italia, a seguito di più sentenze della Corte costituzionale a favore della piena applicazione dei contenuti dello Statuto speciale, della non discriminazione su base linguistica e della eguaglianza di trattamento per i suoi componenti, veniva infine adottata la legge 27 febbraio 2001, n.98, per una sua tutela organica.

La questione dell'indennizzo di beni espropriati nella zona B, oggetto del Trattato di Roma del 1983, si poneva nei confronti di entrambi gli Stati successori, tra i quali interveniva un accordo, il 4 luglio 1996, per la ripartizione dell'onere residuo ( 62% alla Slovenia e 38% alla Croazia). Al riguardo una dichiarazione politica sottoscritta ad Aquileia, il 10 ottobre 1994, dal ministro degli esteri sloveno Peterle contenente disposizioni favorevoli alle aspettative di cittadini italiani per il riacquisto di proprietà, non veniva confermata dal suo governo. Senza che da parte del governo italiano venisse invocata formalmente la decadenza o la revisione del Trattato di Roma, pur possibile e ipotizzabile per il mutamento delle circostanze, la Slovenia provvedeva al versamento delle quote su un apposito conto bancario a tal fine aperto in Lussemburgo, non rendendosi disponibile il previsto conto intestato al Tesoro italiano presso la Banca d'Italia.

La questione veniva invece ampliata dal governo italiano con riguardo dell'ammissione dei cittadini italiani all'accesso della proprietà immobiliare in Slovenia, collegandovi l'assenso alla conclusione del trattato di associazione tra la Slovenia e Unione Europea. Una soluzione poteva infine essere trovata, grazie alla mediazione della presidenza spagnola di turno dell'Unione (compromesso Solana), fatta propria dal vertice dell'Unione a Madrid il 15-16 dicembre 1995 e approvata dal Parlamento Europe l'11 aprile 1996, a favore della liberalizzazione dell'accesso alla proprietà immobiliare in Slovenia, previa modifica costituzionale, con la previsione di un regime transitorio agevolato per i già residenti. Si consentiva in tal modo la conclusione dell'accordo di associazione con la Slovenia 1l 10 giugno 1996 e la prevista modifica costituzionale veniva adottata dalla Slovenia il 14 luglio 1997, con una disciplina generale di accesso di cittadini stranieri alla proprietà immobiliare a condizione di reciprocità. L'ammissione della Slovenia come Stato membro dell'Unione Europea nel 2004 chiudeva la questione con la piena partecipazione alle sue regole.

La materia, di sempre minor pratica rilevanza per il trascorrere del tempo, diveniva oggetto di legislazione interna slovena e croata relativamente a restituzioni e indennizzi nell'ambito del processo di denazionalizzazione, restando però escluse le situazioni già oggetto di accordi internazionali e delle relative previsioni di indennizzo.

                                                                            

Bibliografia essenziale

Oltre ai titoli già citati per la voce TLT, si vedano.

Conetti G., Che cosa resta di Osimo, in “Quaderni Giuliani di Storia”, 2001, n. 2, pp.217-227.

Lo Presti D., RossI D. (a cura di), Quarant'anni da Osimo, Kluwer-CEDAM, Milano 2018.

Ronzitti N. (a cura), I rapporti di vicinato dell'Italia con Croazia, Serbia-Montenegro, Slovenia, LUISS Roma, 2015.


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