Il mito della “Vittoria Mutilata”

Novecento



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di Enzo Fimiani

La storia dell’Italia unita è punteggiata da questioni sulle quali, da tempo, nel discorso pubblico poco si discute e molto si dà per scontato. Alcune tra esse divengono capaci di assurgere allo status di autentici “miti” secolari, che sprigionano una potenza evocatrice tale da far correre il rischio di accoglierne i presupposti come frutto di “verità” storica, non verificabile né sottoponibile allo sforzo critico della conoscenza.

Eppure, ogni mito non è mai pura invenzione, né nasce dal nulla, bensì trova effettivi agganci nella realtà di fasi storiche particolarmente drammatiche. Innescato da fattori reali, può farsi punto di coagulo di forze che convergono affinché – in un determinato tornante cronologico – si creino impianti concettuali, preconcetti ideali, slogan da propagandare e poi radicare, che finiscono per diventare credenze destinate a durare nel tempo, non così dissimili da atti di fede.

Per di più, non v’è mito, in storia, che sia “neutro”, né mero gioco intellettuale fine a sé stesso. Ogni costruzione mitologica influenza piuttosto la storia successiva, pur se naturalmente in misure variabili. A volte accade in forma lieve o sul piano delle pure astrazioni, e in questi casi si diluisce il suo peso o se ne perdono le tracce col tempo. In altri casi, invece, la mitopoietica originaria incide in modo pesante sul “dopo”. Potenti, i miti più coriacei determinano in genere un sentire culturale diffuso che si tramanda nei decenni, in qualche congiuntura animando anche correnti e movimenti ideologici o, persino, facendo da architravi a regimi politici e assetti istituzionali.

Ora, non v’è dubbio che uno dei miti di maggior successo nella storia dell’Italia contemporanea rimanga quello definito, ancora oggi, della “Vittoria mutilata”. Esso si lega al concetto per cui l’unica, grande affermazione militare dall’Unità finirebbe per tramutarsi quasi nel suo rovescio, in sconfitta umiliante. Una vittoria che rimane indiscutibile nei fatti, benché pagata a prezzi salatissimi, giunta alla fine del 1918, dopo gli anni terribili del primo conflitto mondiale che segna profondamente la società italiana (una guerra detta “Grande”, appunto perché incommensurabile per durezza, forme, esiti, rispetto a tutte le precedenti). Una vittoria – anche nel contesto ben più ampio e decisivo dei fronti europei – che si pone per molti versi come straordinaria, specie considerando i limiti del giovane Stato italiano sorto solo nel 1861, le difficoltà immani che deve superare e i costi altrettanto spaventosi che si trova a dover pagare allo sforzo bellico, prima con le lacerazioni tra interventisti e neutralisti nel 1914-15, poi durante il conflitto nel 1915-18 e infine nel drammatico dopoguerra fino al 1922 e al fascismo. Una vittoria, però, che finirebbe per svelarsi, dal 1919, come non piena, anzi dimezzata e, dunque, “mutilata”, per molti ambienti nazionalisti vissuta addirittura come una sconfitta, la cui riprova sarebbero le presunte, minime ricompense ottenute dalla delegazione italiana al tavolo della pace.

            Andiamo per ordine, però: per non cadere nelle medesime trappole di un suo accoglimento acritico, cerchiamo di riannodare i fili del mito e soprattutto di riflettere sulle sue origini.

L’atto di nascita formale va collocato alla fine di ottobre del 1918. In realtà, come spesso si verifica in storia, l’avvio di un percorso mitopoietico ha radici più lontane. E non è neppure frutto dell’estrosa ed estemporanea “invenzione” di un singolo fuori del comune – come in questo caso Gabriele D’Annunzio.

Già gli anni della guerra guerreggiata preparano il terreno al preconcetto per cui il premio al termine del conflitto finirà comunque per rivelarsi impari al sacrificio dei soldati. Nel dramma di un’intera generazione di italiani che, a milioni, viene mobilitata, vive esperienze ai limiti del sopportabile, perde la vita, rimane mutilata, cade in prigionia, ad affacciare questo pregiudizio sono sia gli opuscoli di propaganda diffusi in trincea tra le truppe, sia alcuni dibattiti parlamentari, sia scritti o discorsi di futuri protagonisti della storia d’Italia.

Anche sul piano diplomatico e di politica estera, già ben prima del 1918 comincia a vacillare il presupposto medesimo dell’idea di una possibile mutilazione. Essa poggia su un cardine preciso, e in fondo semplice. Non è certo un caso: per fare presa e divenire sentimento collettivo, infatti, i miti storici hanno bisogno di veicolare messaggi semplici, di logica binaria (bene/male, giusto/sbagliato, noi/loro) e perciò più facilmente ripetibili in forme sloganistiche. Nel nostro caso, si tratta del rispetto integrale dell’accordo firmato dal governo italiano con gli stati della Triplice Intesa (Gran Bretagna, Francia, Russia), in base al quale l’Italia si impegna, nel maggio 1915, a entrare in una guerra in corso ormai dall’agosto 1914 (e già rivelatasi terribile) contro gli imperi austro-ungarico e tedesco, dietro l’assicurazione di ottenere enormi ampliamenti territoriali. Nelle aree previste dall’accordo, però – ecco un altro degli ingranaggi difettosi del meccanismo mitologico futuro – la presenza italiana è minoritaria, in certi casi di molto, come per il sud Tirolo tedescofono, i vasti territori slavi istriano-dalmati dell’Adriatico o alcune isole greche. Per di più, a complicare la “semplicità” dell’assioma originario grazie al quale poi il mito si sarebbe propagato, si aggiungerà il fatto per cui quelle promesse di dividendi territoriali da riscuotere non basteranno più. Sin dagli inizi del 1919, quando si avviano le trattative per la pace a Parigi, esse verranno superate da ulteriori richieste di acquisire zone (la fatidica città di Fiume) non previste nel cosiddetto, e a sua volta mitico, “Patto di Londra” di quattro anni prima.

E non basta: un altro punto debole del congegno del mito risiede nella realtà fattuale: quel patto è non solo segreto e al di fuori di ogni mandato parlamentare, e pertanto giuridicamente d’assai dubbia legalità, ma viene anche svuotato nei suoi presupposti da alcuni decisivi mutamenti storici di rilievo planetario nel frattempo intervenuti dal 1917, tra i quali la rivoluzione bolscevica in Russia e il nuovo ruolo degli Stati Uniti d’America. Se i vertici sovietici avrebbero reso pubblici i capitoli dell’accordo segreto, rivelandone quindi la natura; gli USA, entrati due anni dopo quella firma a Londra in un conflitto per le cui sorti si riveleranno decisivi, non solo si sentiranno svincolati dai suoi effetti ma nel dopoguerra si faranno corifei di posizioni ideali (per quanto formali) sull’autodeterminazione dei popoli che si porranno tra gli ostacoli principali alle rivendicazioni territoriali italiane.

Quando dunque appare sulla scena il concetto seduttivo di “mutilazione”, quel fuoco cova da un po’ sotto la cenere del conflitto e della politica, sul piano interno e internazionale. È il 24 ottobre 1918. In una data non casuale – proprio nel primo, e più simbolico, anniversario del dramma di Caporetto – il principale giornale italiano ospita in prima pagina i versi del poeta-condottiero-eroe di guerra D’Annunzio. Il titolo del «Corriere della Sera», destinato a grande fortuna mediatica, riprende uno dei versi ed è d’impatto: Vittoria nostra, non sarai mutilata. Il testo ha un lessico oscuro e non facilmente decodificabile dalla massa dei lettori (altra caratteristica, quest’ultima, di un mito ben strutturato: di esso, con difficoltà si dipanano tanto la struttura originaria quanto la trama dei codici di linguaggio che lo sostanziano, sostituiti dalla semplificazione comunicativa del messaggio mitologico). Sorta di lamento in forma di orazione, vi si evocano rimandi religiosi, retorica patria, sacrificio e martirio di soldati. Vi si preconizza il rischio di uno scarto doloroso tra il prezzo pagato dagli italiani alla Grande guerra e il premio che la nazione attende. Vi si prefigura già l’angoscia che la forbice tra sofferenze di guerra e risultati attesi possa manifestarsi tanto ampia da dover essere vissuta come autentica patologia di massa. La metafora dannunziana è potente: il mutilato è un triste primattore dell’esperienza di guerra e, con la sua sola presenza, ne costituisce un monito, una non eludibile eredità, per certi versi in misura maggiore dei caduti.

Da quella pubblicazione, inizia il percorso – di psicologia collettiva, potrebbe dirsi – che dovrebbe condurre al propagarsi della sensazione per cui l’Italia venga infine percepita quale vittima, mutilata dei propri diritti conquistati con il sangue dei soldati, nel fango e nella sporcizia delle trincee o nel gelo della neve e dei ghiacci di montagna. Condizionati dalla capacità di attecchimento che quel mito avrebbe mostrato nel tempo lungo della storia, un tale cammino potrebbe apparirci lineare nei suoi sviluppi e diffuso largamente nel paese già dal 1919, sostenuto da un’immediata presa sui grandi numeri. Gli italiani del 1919 – secondo una logica che alla base ha un presupposto: sentirsi depositari di sacrifici di guerra “diversi”, e qualitativamente migliori, rispetto a quelli degli altri vincitori – sarebbero tutti convinti a sentirsi privi di “arti” del loro corpo di nazione, amputato di terre patrie prigioniere sotto altre nazionalità.

Non è così, in realtà. La storia concreta ci dice altro, come s’è visto. Gli stessi stilemi, locuzioni, slogan del mito di una vittoria italiana resa mutila dai maneggi diplomatici e politici delle potenze dell’Intesa sedute da arroganti vincitrici al tavolo della pace – vale a dire dal “male”, nella logica binaria e oppositiva descritta – vivono un cammino non lineare, assai meno sicuro di quanto si creda, di certo controverso e non patriotticamente trionfale nel corso degli anni successivi al tacere delle armi di quella guerra (“Grande” perché traumatica quant’altre mai). L’idea-forza che ne è alla base circola naturalmente in forme rilevanti ma non con la diffusione, e la pervasività, che le fortune successive lascerebbero ipotizzare (soprattutto dall’arrivo al potere del fascismo in poi). Ciò dimostra come la questione delle “origini” di ogni costruzione mitologica nel campo politico-ideologico sia assai più complicata delle successive semplificazioni, inevitabili e foriere, con l’andare del tempo, di un accoglimento acritico degli assiomi su cui si basa.

Non c‘è spazio, in questa sede, per seguire nei particolari le tracce del mito, dai suoi albori in poi. Si può solo sottolineare come siano in chiaroscuro i passaggi che esso attraversa dai versi dannunziani del 24 ottobre 1918 fino a tutto il periodo tra 1919 e 1921. A cominciare da qualche perplessità iniziale proprio da parte di colui che sarà invece assai abile nell’utilizzare meglio di chiunque altro la forza propulsiva del mito, facendone uno dei vessilli propagandistici agitati dal fascismo avanzante. Mussolini infatti oscilla, come spesso gli accade nelle relazioni ambigue con D’Annunzio (e non solo), tra due tentazioni. Cavalcare in pieno la “pars destruens” del dopoguerra, emblematicamente racchiusa nella parola d’ordine del poeta, sposando quindi il disincanto postbellico (peraltro normale dopo i traumi di un conflitto del genere)? Oppure viceversa esaltarne la “pars construens”, vale a dire il raggiungimento degli obiettivi risorgimentali, racchiusi anch’essi nella banalizzazione, però allo stesso modo potente, di formule come “IV guerra d’indipendenza” o “Trento e Trieste”? Da parte loro, gli stessi interventi dannunziani della prima parte del 1919 non sembrano un chiaro rilancio della metafora mitologica della mutilazione bensì piuttosto un richiamo agli italiani a non lasciarsi andare alla paura di vincere e dunque a far prevalere un impulso positivo, reattivo, contrario al vittimismo della mutilazione patita che l’origine del mito conduce con sé e stimola. In generale, la locuzione “’Vittoria mutilata” non viene riproposta in misura così larga, neppure nei momenti di massima esaltazione nazionalistica del presunto “diciannovismo” (l’abbandono della conferenza di Versailles da parte della delegazione italiana in primavera, l’inizio dell’avventura fiumana guidata da D’Annunzio da settembre, il tornante delle elezioni politiche in novembre). Sulla stampa, negli opuscoli propagandistici, nei comizi, nel discorso pubblico in genere, la fatidica coppia di sostantivo/aggettivo non appare così diffusa come gli sviluppi successivi, dal 1921 in poi, ci lascerebbero credere.

Non si dimentichi che la folgorante parola d’ordine dannunziana, “Vittoria mutilata”, è essenza stessa del mito: senza la sua affermazione e ripetitività nella narrazione pubblica non vi sarebbe impianto mitologico. Essa circola ampiamente ma solo in ambienti circoscritti. Tanto che nella prova decisiva di quell’anno cruciale sembrano addirittura perdersene le tracce, sebbene proprio in quelle settimane la vicenda di Fiume conosca il suo pieno svolgimento ed espanda tutto il suo bagaglio nazional-retorico. Nelle elezioni politiche del novembre 1919, infatti, in teoria una questione di tale rilevanza dovrebbe rivelarsi, stando al mito che ci viene tramandato (anche da larga parte della storiografia), come una delle più incidenti sul dibattito e sulla polemica tra gli schieramenti, un’arma narrativa potente da brandire, un viatico al successo elettorale. In realtà, essa parrebbe quasi inabissarsi quanto più si avvicini la scadenza del voto. Non v’è un solo partecipante alla contesa elettorale che faccia del mito della vittoria mutilata in sé l’asse portante o il primario cavallo di battaglia della propria campagna. Non basta, i risultati di quella prima consultazione a suffragio universale maschile, con sistema proporzionale e schieramenti politici così mutati dalla tempesta della Grande guerra, daranno clamorosamente torto agli agitatori del mito di una vittoria italiana mutilata: nazionalisti, in parte ex-combattenti, fascisti (che decidono poi, non a caso, di astenersi dalla contesa elettorale) sono tra i principali sconfitti di quel voto nazionale, determinando forse il più clamoroso scarto tra aspettative e risposte concrete dell’Italia unita.

La vera influenza del mito della Vittoria mutilata comincia dunque più avanti, quando un tornante emotivamente decisivo – e forse momento di massima coesione nazionale della vicenda unitaria italiana – come la nascita di un’altra mitopoietica, quella del Milite ignoto e della sua forza simbolica il 4 novembre del 1921, si trasformerà invece in una leva ideologico-propagandistica per uno specifico movimento divenuto partito.

Sarà il fascismo a farne una delle sue parole d’ordine, ad afferrarne senso, forza seduttiva, utilità sul piano del realismo politico, tanto da voler scrivere, nel proclama dei quadrumviri per la marcia su Roma, che «l’esercito delle camicie nere riafferra la Vittoria mutilata e […] la riconduce alla gloria del Campidoglio». L’incipit elitario di D’Annunzio tra 1918 e 1919, la circolazione degli stilemi mitologici della mutilazione gestita da alcuni contesti socio-politici nell’Italia dal 1919 al 1921, diviene dal 1922 al 1945 uno dei temi forti della propaganda del regime fascista, penetrando a tal punto nel tessuto dei luoghi comuni italiani da costituire poi una delle più durevoli eredità che il fascismo consegnerà alla storia dell’Italia divenuta democratica, repubblicana e costituzionale.

Un’eredità con la quale ci troviamo ancora a fare i conti. A più di un secolo di distanza, non molti sono gli italiani capaci di affermare con sicurezza che l’Italia sia tra le nazioni che escono vincitrici, e non sconfitte, dallo scontro bellico mondiale: influsso di un mito in grado di instillare dubbi su ruolo, vicende, destini di un paese nel conflitto-simbolo della modernità novecentesca.

 

 

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