Irredentismo

Ottocento



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di Fabio Todero

Non è azzardato affermare che la pubblicazione di un breve scritto dell’insigne glottologo goriziano Graziadio Isaia Ascoli abbia fornito lo spazio – geografico, culturale e ideale – per il successivo sviluppo dell’irredentismo trentino e, soprattutto, di quello giuliano.  Nel suo saggio Le Venezie, infatti, apparso una prima volta nel 1863 sulle pagine del giornale milanese «L’Alleanza» e, dunque, tre anni prima dell’annessione del Veneto e del Friuli occidentale da parte del giovane Regno d’Italia, Ascoli aveva parlato per la prima volta di una Venezia Giulia del tutto omogenea per «la geografia, la etnologia, la istoria e l’uso della lingua» alle gemelle Venezia propria e Tridentina, ovvero il Veneto e il Trentino. Di queste regioni, lo studioso auspicava un futuro o imminente congiungimento ai «fratelli» del Regno.

Anche se il termine Venezia Giulia – che sarebbe entrato nell’uso comune della polemica politica al momento della lotta per l’intervento nelle Grande guerra – non godette di immediata fortuna, esso poneva le basi per la nascita di un movimento che avrebbe rivendicato la sostanziale unità di quelle aree geografiche con lo Stato che il processo risorgimentale aveva costruito e che riteneva non ancora esaurito. Così, quando nel 1879 il testo di Ascoli venne riproposto sulla «Stella dell’esule», i proventi del volume poterono essere destinati alla «associazione per le Alpi Giulie di Roma», uno dei non pochi gruppi che, con il frequente sostegno di logge massoniche, sostenevano la causa delle terre irredente. Dal tempo della sua elaborazione, lo scenario era infatti sostanzialmente mutato: nel 1877 era stata fondata da Matteo Renato Imbriani – già volontario garibaldino e fervente repubblicano – la Società pro Italia irredenta, la cui presidenza onoraria fu assegnata a Giuseppe Garibaldi. Imbriani, durante il discorso tenuto al funerale del padre, aveva utilizzato il temine «terre irredente» per designare le regioni dell’Impero degli Asburgo che ospitavano comunità di italiani ancora separate dalla madre patria: proprio la Venezia Tridentina e la Venezia Giulia di cui aveva parlato Ascoli, ma anche la Dalmazia.

Al di là dell’utilizzo denigratorio che la stampa austriaca avrebbe fatto del termine «irredentismo», questo ebbe invece pronta diffusione, al punto da varcare i confini italiani per estendersi ad altri contesti europei in cui sussistevano gruppi nazionali che, incorporati in contesti statuali diversi come gli italiani d’Austria, aspiravano a essere uniti allo stato-nazione di riferimento. È anche importante riflettere sul valore simbolico di un lemma che rinviava con immediatezza alla sfera del sacro: l’irredentismo si sviluppò infatti quando i processi di sacralizzazione della politica erano ormai in corso. Inoltre, esso era figlio della mazziniana «religione della patria» e di un’epoca ancora largamente intrisa di idealità romantiche e risorgimentali.

La svolta coloniale del governo italiano e la sottoscrizione della Triplice alleanza rese vane le aspirazioni degli irredentisti e proprio nel 1882, anno dell’accordo, esplose il caso Oberdan. Il giovane studente triestino, nutritosi di idealità patriottiche, aveva clandestinamente lasciato i territori dell’Impero per sfuggire al reclutamento nell’esercito asburgico; rientrato a Trieste per attentare alla vita dell’imperatore Francesco Giuseppe, venne però catturato a Ronchi per essere successivamente condotto nella città natale. Qui fu processato e condannato a morte – l’esecuzione avvenne il 20 dicembre 1882 – ma il suo caso aveva attirato l’attenzione di un intellettuale come Giosuè Carducci, attivo sostenitore della questione delle «terre irredente», e di un prestigioso letterato francese come Victor Hugo. Ciò non di meno, le aspirazioni al completamento del processo risorgimentale con l’annessione di Venezia Giulia e Trentino rimasero a lungo minoritarie nel paese e vennero a lungo osteggiate dai governi italiani. Questi temevano infatti ogni atto che potesse minare i nuovi equilibri diplomatici determinatisi all’indomani del congresso di Berlino e della successiva firma della più volte rinnovata intesa con gli Imperi centrali.

Il nome di Carducci ci richiama al ruolo fondamentale esercitato dalla letteratura e dalla cultura italiana per i giovani che intanto, nella Venezia Giulia, andavano accostandosi al movimento irredentista, in un clima – mi riferisco in particolare alla realtà triestina – largamente penetrato di spiriti romantici. Lo testimoniano, tra gli altri, Umberto Saba e anche il più acuto critico del movimento, il socialista triestino Angelo Vivante. Quest’ultimo parlò dell’irredentismo come di un fenomeno «nato e vissuto in un’atmosfera di sogno e di passione, repugnante per natura e tenuto poi, ad arte, lontano dalle correnti aspre e rudi della realtà», sbocciato inoltre «quasi un secolo dopo che nell’attuale Regno d’Italia». Anche Scipio Slataper colse nell’irredentismo uno stato d’animo permeato dalla volontà di eroismo.

Questo «romanticismo in ritardo», il culto di Dante e della più alta tradizione letteraria italiana, l’ammirazione religiosa per i protagonisti del Risorgimento e per i suoi protagonisti nutrirono così una generazione di giovani triestini, sulla cui formazione pesò non meno il ruolo delle famiglie e dell’associazionismo patriottico – dalle ceneri della Pro Patria, disciolta dalle autorità imperiali era nata intanto la Lega Nazionale (1891) – e sportivo. Molte società sportive infatti, dietro alla pratica di diverse discipline – dalla ginnastica all’alpinismo, dal canottaggio al calcio e così via –, si proponevano di contribuire all’educazione patriottica dei propri aderenti, partecipando del processo di nazionalizzazione delle masse che intanto caratterizzava la società europea coinvolgendo anche le componenti nazionali di minoranza di grandi realtà statuali multiculturali come l’Impero degli Asburgo: non a caso, analoghe finalità erano perseguite dal movimento dei Sokol, associazioni ginniche nate nel mondo slavo e diffuse anche nella Venezia Giulia.

Alla formazione di una generazione di giovani affascinati dagli ideali nazionali, alla diffusione della conoscenza della storia, della geografia e della cultura italiana destinata a sostanziare la costruzione della «comunità immaginata» costituita dalle minoranze italiane d’Austria e da quella della madre-patria, fu però soprattutto la formazione scolastica. Fondamentale, in questo senso, fu il ruolo esercitato dal triestino liceo ginnasio comunale, il «Dante Alighieri», e dal liceo «Combi», suo omologo capodistriano. Non a caso, negli anni in cui gli interessi dei maggiori gruppi nazionali della Venezia Giulia erano venuti a collidere, mentre sloveni e croati avevano a loro volta maturato una propria coscienza nazionale, la lotta per la scuola e l’istruzione aveva caratterizzato la battaglia politica tra i rappresentanti delle diverse comunità.

L’irredentismo giuliano, sempre più attratto nell’orbita del nazionalismo italiano, andava intanto abbandonando le proprie radici mazziniane per rendere sempre più aspri e marcati i toni antislavi, Tale fenomeno investì anche una formazione come la Democrazia sociale italiana. Pur non nascondendo le proprie origini mazziniane e l’intento di fondere la lotta nazionale con quella sociale, questo piccolo ma combattivo gruppo politico animato soprattutto da giovani rivolse i propri strali verso sloveni e croati, aprendo però alle lotte delle realtà slave più lontane desiderose a loro volta di emanciparsi dal dominio degli Asburgo, quando queste si fossero ispirate alla lezione di Mazzini. Così, accanto a un irredentismo culturale, teso sostanzialmente alla difesa della lingua e dell’identità italiana all’interno della multiforme realtà dell’Impero cui pensava Scipio Slataper e che ispirò anche i primi passi dell’irredentismo fiumano, si sviluppò un aggressivo irredentismo nazionalista, fortemente antislavo. Campione di questo irredentismo dichiaratamente imperialista, fu il triestino Ruggero Timeus. Intanto, con la sua fine analisi del 1912, Irredentismo adriatico, pubblicato dalla Libreria della Voce, Angelo Vivante coglieva la contraddizione di fondo del movimento, proteso verso l’Italia benché le fortune economiche di una realtà come Trieste fossero storicamente legate all’economia dell’Impero.

In Istria, gli storici legami con Venezia e con la sua storia, avevano a suo tempo alimentato un certo flusso di fuorusciti che avevano partecipato alle guerre del risorgimento. A partire dagli anni Ottanta dell’Ottocento, si erano poi moltiplicate associazioni culturali e giornali in lingua italiana volti alla difesa e alla diffusione dell’italianità nella regione, a fronte della crescita di analoghe realtà slovene e croate; tra queste, ad esempio, la Società politica istriana, sorta a Pisino nel 1884 con il proposito di difendere il gruppo nazionale italiano. La competizione politica era centrata sul problema della lingua e della scuola, ma le tensioni andarono radicalizzandosi: i contrasti si trasferirono così dai banchi della Dieta provinciale alla piazza. Particolarmente significative furono le proteste di Pirano, determinate dalla decisione di utilizzare tabelle bilingui presso le sedi dei tribunali (1895). Intanto il partito liberal nazionale andava aprendosi sempre più a posizioni nazionaliste e irredentiste, capaci di attrarre anche parecchi giovani, mentre parallelamente crescevano i movimenti nazionali slavi. Né mancarono di diffondersi piccoli gruppi mazziniani come la già ricordata Democrazia sociale italiana nelle cui fila militò un personaggio come Nazario Sauro che nel 1916 avrebbe pagato con la vita i suoi ideali di italianità.

Si è fatto riferimento alla componente giovanile dell’irredentismo: questa caratterizzò anche l’esperienza fiumana dove alla difesa ideale della cultura e del carattere italiani della città, che caratterizzava il partito autonomo e le generazioni più anziane ‒ un irredentismo vissuto come «aspirazione astratta», secondo le parole del leader autonomista Riccardo Zanella ‒ si sovrappose l’attività di un gruppo denominato “La Giovine Fiume”. Nata nel 1905, esso doveva il suo nome alle simpatie mazziniane di uno dei suoi fondatori, il ventenne Gino Sirola. Anche gli altri soci dell’associazione erano studenti universitari o di liceo. Nonostante il tentativo di temperarne gli intenti, la prima occasione di uscire allo scoperto furono gli scontri avvenuti tra gli irredentisti e i ginnasti dell’associazione croata “Sokol” che avevano improvvisato una manifestazione in città. Il gruppo si era dotato intanto anche di un periodico dallo stesso nome, sostenuto anche da personaggi più anziani, che diffuse la conoscenza di fatti e personaggi del risorgimento italiano. Mentre andava crescendo la tensione con il partito autonomo, le vivaci iniziative della Giovine Fiume e gli articoli del suo periodico attrassero l’attenzione delle autorità di polizia che dapprima chiuse il giornale (1910), mentre un secondo pellegrinaggio a Ravenna sulla tomba di Dante porse il destro per sciogliere il circolo (1912).

Anche in Dalmazia, inizialmente, l’irredentismo si caratterizzò soprattutto come difesa dell’identità degli «italiani di Dalmazia» e della cultura nazionale, che prescindeva tuttavia da ambizioni di separazione dell’Austria-Ungheria. Si intrecciarono poi relazioni con i partiti liberali di Trentino e Venezia Giulia e fu fondata anche una sezione dalmata della Pro Patria, poi Lega Nazionale, associazione che per tutte le comunità degli italiani d’Austria svolse un importante compito di sostegno alla diffusione della cultura italiana e alla difesa dell’identità nazionale, mentre ne uscirono rafforzati i rapporti con il partito liberal nazionale istriano e triestino. Va aggiunto che le posizioni degli italiani ‒ per lo più riuniti attorno agli autonomisti ‒ erano qui più delicate, poiché si trattava di una minoranza le cui difficoltà andarono aumentando dinanzi allo sviluppo dei partiti croati. A queste, le autorità asburgiche guardavano con maggior favore. Le strategie poste in atto dai nazionalisti croati e poi jugoslavi aumentarono la conflittualità e non mancarono scontri con esponenti italiani. Le crescenti tensioni e quindi lo scoppio del conflitto portarono infine i leader autonomisti italiani a volgersi verso posizioni di deciso irredentismo e a sostenere l’intervento in guerra italiano contro l’Austria Ungheria.

A limare differenze e sfumature, a conciliare in qualche modo interpretazioni contrastanti del fenomeno irredentista, giunse proprio la guerra europea che vide gli irredentisti giuliani, fiumani e dalmati impegnati nel sostegno alla lotta per l’intervento, mentre il fenomeno del fuoriuscitismo giuliano (e trentino) aveva assunto una più significativa dimensione. Una volta decisa l’entrata in guerra dell’Italia si sviluppò così il fenomeno del volontariato degli irredenti nell’esercito dei Savoia che condusse in trincea buona parte dell’intelligentija giuliana e vide la morte di molti giovani intellettuali.

Al termine del conflitto, benché avesse esaurito il suo compito storico, si velò di irredentismo anche la questione fiumana e dalmata, in una temperie culturale sempre più caratterizzata da un diffuso nazionalismo e dall’incipiente affermazione del fascismo. Pronto ad appropriarsi di miti, simboli e storia del movimento, esso cancellò le sfumature e le peculiarità che pure lo avevano caratterizzato, sottolineandone esclusivamente la dimensione di lotta per l’affermazione nazionale e di sopraffazione delle altre nazionalità del territorio: un «irredentismo a una dimensione» ormai distante dalle raffinate interpretazioni di Scipio Slataper e dalla sua apertura a quel mondo dove tutto – aveva scritto – era pluralità.

  

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