Il partito liberal-nazionale di Trieste

Ottocento



Scarica il PDF

 di Luca G. Manenti

Nelle elezioni comunali del marzo 1861 si affacciò sulla scena politica triestina il nucleo dell'emergente partito liberale, borghese e filoitaliano. Erano il mese e l'anno dell'unificazione della vicina penisola, che aveva entusiasmato una parte della cittadinanza che condivideva lingua e cultura coi sudditi del nuovo Stato limitrofo. La formazione partitica che assunse in seguito il nominativo di liberal-nazionale nacque ufficialmente nel 1868, poco dopo la guerra tra Savoia ed Asburgo, che frustrò le speranze di chi aveva desiderato concludere il risorgimento con la conquista della Venezia Giulia. Contrapposto ai lealisti, coi quali riuscì però a trovare un terreno d'incontro nella difesa delle libertà civili e dello Statuto, il gruppo era diviso in mazziniani e moderati. Sebbene i primi fossero propensi a spezzare in maniera definitiva i legami con il governo austriaco e i secondi rimanessero attaccati al concetto di un legaritarismo autonomista, a unirli era la necessità di rimarcare la comune matrice italiana nel tessuto multiculturale della città.

Maggiori difficoltà si ebbero nell'elaborare di conserva una tattica da impiegare al Reichsrat, il parlamento imperiale, fino alla scelta della figura più in vista della compagine, Francesco Hermet, d'allearsi coi federalisti, nella prospettiva di mantenere un certo margine di manovra a livello periferico e di tutelare la nazionalità italiana nel quadro delle leggi, accantonando ogni velleità separatista. Hermet agiva però senza largo appoggio, tanto che, appena uscì di scena, i consoci preferirono astenersi fino al 1897 dal partecipare al parlamento di Vienna per concentrarsi in via esclusiva nella salvaguardia delle prerogative municipali, sostenuti dall'idea di un nesso fra Trieste e lo Stato equiparabile a un contratto fra pari.

Alla ricerca d'intese con il mondo del commercio e della finanza, punto di riferimento di insegnanti, esercenti, funzionari pubblici e addetti all'apparato burocratico, dal 1882 allo scoppio della prima guerra mondiale il partito tenne saldamente in mano il timone del Comune tergestino grazie a un sistema rappresentativo fondato sulle curie: corpi elettorali a base sociale costituiti proporzionalmente al censo e non al numero, congegnato per favorire le classi possidenti e impiegatizie tedesche dell’impero, che erano però italiane nelle regioni costiere dell’Adriatico. Per costoro era necessario, allo scopo di proteggere il ruolo egemone che esercitavano, combattere le teorie collettivistiche che sfidavano lo status quo e contenere l’elemento slavo, reputato una stampella dell’Austria, che sin dal 1866 aveva fatto in modo che negli uffici distrettuali del Litorale la presenza italiana fosse adeguatamente controbilanciata da croati e sloveni.

Nei confronti degli italiani delle fasce disagiate i notabili del partito tennero un atteggiamento protettivo e paternalistico, in linea con il connotato di conservatorismo a cui erano approdati partendo da coordinate iniziali di stampo più accentuatamente liberale. Il coefficiente nazionale, insomma, che complicava i giochi politici qui e ovunque nell’impero danubiano, pesava quanto la volontà di proteggere ceto e rendite di posizione. Ma a raccogliere le simpatie dei connazionali di bassa estrazione fu soprattutto il socialismo d’impronta austro-marxista, che era pacifista, internazionalista e antirredentista. Essendo leale alla corona, incline a ottenere riforme invece che il potere con la violenza, quest’ultimo fu apprezzato da Vienna, al pari del fronte cristiano sociale, quale freno a ogni pretesa di separazione dall'impero e contraltare all'attivismo dei reggitori del municipio.

È tuttavia degno di nota che la lista dei candidati liberal-nazionali alle comunali di Trieste del 1893 contasse, oltre a possidenti, medici e avvocati, un macellaio e dei negozianti al minuto: se non dei proletari, degli appartenenti alla borghesia piccolissima. Testimonianza perspicua dell’afflato pedagogico dell’amministrazione civica verso le classi inferiori erano i sodalizi promossi per infondere i valori della moralità, della laboriosità e del decoro. I mazziniani si raccoglievano intorno alla Società operaia, i moderati alla Società triestina per le arti e l'industria e alla Banca popolare. Entrambi frequentavano la Società del progresso, attraversata dalle tensioni fra i due schieramenti, con i democratici che di continuo reclamavano un abbassamento delle quote d'iscrizione. Interlocutori prediletti erano la Lega Nazionale, associazione posta a baluardo dell'anima italiana del porto adriatico, e la Dante Alighieri, che rappresentò un canale di comunicazione con il regno contermine e un mezzo per lo sporadico afflusso di denaro in occasione delle tornate elettorali, essendo i liberal-nazional considerati dagli ambienti d'oltreconfine di medesimo orientamento un avamposto ufficioso in terra austriaca.

I maggiorenti del partito, difatti, intesero realizzare a Trieste un piano pedagogico fondato sull'omologazione linguistica e culturale italiana. Dovendo rispondere a tale esigenza d'assorbimento di genti stimate meno civili, la nozione d'italianità di cui si fecero forti risultò notevolmente inclusiva, protesa a fagocitare il diverso, per l'appunto a italianizzarlo, secondo una strategia sempre ribadita dalla letteratura irredentista, che vedeva nello slavo il barbaro da ingentilire. Istituzione parascolastica su cui i liberali puntarono molto furono i ricreatori comunali, non per nulla osteggiati dagli sloveni, che si vedevano minacciati dal disciplinamento, in chiave italiana, che lì si faceva. Speculare fu il modo degli slavi di plasmare la fisionomia della propria comunità, in cui ricchi e poveri, imprenditori e operai, trovarono un cemento coesivo nella meta di salvare la specificità nazionale dall'invadenza altrui, ponendosi sotto l’egida asburgica per bloccare un processo d’assimilazione che non erano più disposti a subire.

La massoneria triestina, tanto intimamente connessa al partito liberale che sarebbe difficile affermare con sicurezza quale dei due fosse la testa pensante e quale l’appendice operativa, funse da laboratorio ideologico, collante organizzativo, agenzia di reclutamento dei quadri e degli idonei a entrare nel circuito fidato del patriottismo, a prescindere – fino a una certa misura – dai gusti politici e dalle provenienze di classe, sebbene nei templi massonici la media borghesia prevalesse incontrastata. Appartenne alla libera muratoria la gran parte dei professionisti a capo del Comune, in primis Felice Venezian, leader della loggia e del partito sino alla morte nel 1908. Fu all'interno della prima – dall'appellativo che era di per sé una dichiarazione d'intenti: Alpi Giulie, nome della cinta montuosa giudicata dalla propaganda patriottica il limes entro cui si racchiudeva la nazione e che di conseguenza avrebbe dovuto racchiudere lo Stato italiano – che i conservatori riuscirono a blandire la componente repubblicana che partecipava ai lavori rituali, stante la natura di camere di compensazione delle officine, capaci di mediare fra spinte antitetiche e includerle in uno schema unitario, in cui chiunque, con uno sforzo conciliativo, potesse riconoscersi.

Non pochi liberal-nazionali iscritti alle logge erano d'origine ebraica e l'adesione alla religione della patria significò per essi l'allontanamento dalla religione dei padri. Divennero così Konfessionslos, ossia «senza confessione», esercitando un'abiura di tipo religioso, non culturale, poiché mantennero viva la propria cerchia di conoscenze. Non è un caso che gli attacchi al partito provenienti da destra, segnatamente dai lealisti e dalla fazione tradizionalista del cattolicesimo sloveno, venissero sferrati impugnando l'arma dell'antisemitismo, a dire il vero con poco successo nella Trieste cosmopolita e adusa alla convivenza di popoli e fedi diverse, nonostante il surriscaldamento del clima politico di fine Ottocento.

Al principio del nuovo secolo e via via nel tempo s'allargò la divaricazione fra le due correnti del partito, in ragione delle sintonie della sinistra e della destra con, rispettivamente, i socialisti austriaci e i nazionalisti italiani, ma non si giunse mai a una vera scissione. Lo scoppio della grande guerra scompaginò gli assetti costituiti, ponendo per la prima volta i liberal-nazionali di fronte alla possibilità, ancorché remota agli occhi dei più, dell'accorpamento di Trieste all'Italia. Dal settembre 1914 Teodoro Mayer, massone alto graduato e proprietario del giornale «Il Piccolo», sfruttò i contatti che aveva stretto con esponenti governativi del regno per sondare la fattibilità di un'intesa fra Italia e Inghilterra in funzione antiaustriaca, mentre il compagno di partito Giorgio Pitacco, membro del  Reichsrat e della loggia romana Propaganda massonica, si fece portavoce delle istanze radicali dell'irredentismo giuliano. Il Consiglio cittadino, scioltosi allo scoppio delle ostilità, passò le leve del comando a una Giunta ristretta, composta da personaggi tolti dalle sue stesse fila, finché l’intervento italiano nel conflitto e il posto di retrovia che Trieste acquisì con l’apertura del fronte meridionale non indussero Vienna a conferire i pieni poteri a un commissario imperiale. Fino al maggio 1915, dunque, la città non conobbe un effettivo cambio di governo, ma una ridistribuzione delle competenze entro l'organismo decisionale. Quanti non erano fuggiti in extremis verso la penisola furono internati perché ritenuti inaffidabili, come avvenne a molti italofoni del Litorale. Conclusa la guerra e tornati nel luogo d'origine finalmente «redento», le spodestate guide del Comune cercarono con fatica di ricollocarsi, consci che il compito precedentemente svolto di sentinelle al confine orientale si era ormai esaurito.

Collassato lo Stato asburgico, venne meno il meccanismo elettorale che aveva garantito la loro supremazia. Eretto il 30 ottobre 1918 un Comitato di salute pubblica, dove trovarono sede i rappresentanti di tutte le fazioni politiche e della minoranza slovena, di lì a breve i poteri civili e militari furono trasmessi al governatore generale Petitti di Roreto. L’ala progressista del raggruppamento liberal-nazionale diede vita in dicembre a un partito chiamato il Rinnovamento, dal programma democratico e dalla vena conservatrice. Il nuovo attore politico fece pressioni affinché le elezioni del Consiglio comunale si svolgessero non col suffragio universale, ma col passato metodo austriaco, richiesta eloquente delle sue intenzioni di riacquistare un posto al sole e, insieme, delle difficoltà incontrate ad adattarsi al mutato stato di cose.

La struttura chiusa, l’esigenza di farsi blocco per rintuzzare l’avanzata di slavi e socialisti, avevano conferito al partito italiano, nonostante le incrinature intestine di cui si è parlato, una fisionomia tanto compatta, lo avevano indotto ad arroccarsi con così forte tenacia su principi dati per non negoziabili, che ora diventava assai arduo adottare quell’elasticità e disponibilità alla mediazione che le sopravvenute circostanze richiedevano. Sciolto il Consiglio comunale, nominato un Commissario straordinario, nell’estate del 1919 il Governatorato militare delegò le sue funzioni a un Commissario civile. I superstiti della vecchia classe dirigente triestina s'inserirono nei gangli di un sistema destinato, entro poco, a cedere il passo al fascismo.

 

Bibliografia essenziale

Manenti L.G., Massoneria e irredentismo. Geografia dell'associazionismo patriottico in Italia tra Otto e Novecento, Trieste, Irsml FVG, 2015.

Manenti L.G., Trieste 1914-1915: il problema della disoccupazione attraverso i verbali della Giunta Comunale, in Neutralità e guerra. Friuli e Litorale austriaco nella crisi del 1914-1915, a cura di M. Ermacora, Ronchi dei Legionari, Consorzio culturale del Monfalconese, Trieste, Istituto Livio Saranz, 2015, pp. 75-85.

Manenti L.G., Un fuoco fatuo. Rinascita e scomparsa della massoneria a Trieste (1918-1925), in «Quaderni Giuliani di Storia», Adriatico inquieto (1918-1925). Contributi e saggi al XIX Convegno annuale di studio della Deputazione di Storia Patria per la Venezia Giulia, a cura di R. Spazzali, a. 39, n. 2, 2018, pp. 195-206.

Manenti L.G., Giorgio Pitacco. Sindaco di Trieste 1922-1926. Podestà 1928-1933, in Maestri per la città. Sindaci massoni 1771-2019, a cura di G. Greco, Acireale, Tipheret, 2019, pp. 211-220.

Millo A., L'elite del potere a Trieste. Una biografia collettiva 1891-1938, Milano, FrancoAngeli, 1989.

Millo A., Un porto fra centro e periferia (1861-1918), in Il Friuli-Venezia Giulia, v. I, a cura di R. Finzi, C. Magris, G. Miccoli, Torino, Einaudi, 2002, pp. 181-235.

Negrelli G., Al di qua del mito. Diritto storico e difesa nazionale nell'autonomismo della Trieste asburgica, Udine, Del Bianco, 1978.

 


Della stessa tematica