La Resistenza italiana a Trieste

Novecento



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di Raoul Pupo

Perché vi affannate tanto – ci dicono essi – posto che il destino di queste terre non dipende punto da voi, né da noi? Il destino di Trieste, o è già stato deciso, a quest’ora, o sarà deciso domani dagli Alleati. Sarà quel che sarà, nulla da fare e andate a dormire. Noi invece siamo di tutt’altro parere. Noi vogliamo vegliare e vigilare e tenere gli occhi bene aperti e i pugni bene stretti sulla nostra sorte: la quale non è affatto vero che sarà quella che sarà, ma sarà o con l’Italia o via dall’Italia. [...] Non l’Italia contraffatta dei Savoia o di Mussolini, ma l’Italia degli italiani, nascente oggi dal sangue di un popolo martire che nella lotta contro tedeschi e fascisti compie il suo secondo Risorgimento.

 

Le parole di Gabriele Foschiatti – garibaldino, volontario irredento, legionario fiumano, perseguitato dal fascismo, partigiano azionista destinato a morire a Dachau – esprimono icasticamente le difficoltà della Resistenza italiana a Trieste. Al constante rischio di infiltrazioni e delazioni, tipico della cospirazione in ambito urbano, si accompagnavano le grandi incertezze presenti nella società italiana della città nel sostenere un movimento resistenziale che si sapeva egemonizzato dai comunisti jugoslavi e che quindi per molti versi si presentava come l’ultima e più pericolosa versione di quella “minaccia slava” che aveva spinto buona parte della generazione precedente verso l’irredentismo. Il trauma delle foibe istriane e le ben note rivendicazioni territoriali jugoslave avevano certo acuito i timori, diffondendo attesismo e suggerendo soluzioni di basso profilo politico, come il servizio al lavoro nella Todt ovvero l’arruolamento nella Guardia civica, apparentemente estranea alla politica anche se in realtà inserita come le altre Landschutz nell’apparato poliziesco germanico.

La militanza resistenziale rimase quindi patrimonio di ristrette élites politicizzate in senso antifascista, che incontrarono severe difficoltà di rapporti sia con il CLN Alta Italia, che faticava non poco a comprendere la situazione locale, sia con il movimento di liberazione sloveno, che le forze resistenziali italiane desiderava inglobare. A ciò va aggiunta la palese inesperienza cospirativa degli antifascisti di matrice azionista, socialista e cattolica, che favorì l’azione repressiva nazifascista, tant’è che il CLN giuliano venne distrutto più volte. Il primo Comitato di liberazione nazionale venne infatti spazzato via dagli arresti nel dicembre 1943 e fu possibile ricostituirlo appena nel maggio 1944. Già nell’autunno del medesimo anno il CLN venne però indebolito dall’arresto della dirigenza comunista, cui seguì la scelta del PCI di ritirarsi dall’organismo per aderire invece a quelli espressi dal Fronte di liberazione sloveno (OF). Nel febbraio 1945 poi, caddero nelle mani nazifasciste tutti i principali esponenti del Comitato, compreso il presidente, don Edoardo Marzari.

Ad ogni modo, fino all’autunno del 1944 il perno del CLN fu costituito dal partito comunista guidato dal muggesano Luigi Frausin, che tentò di mantenere il PCI nell’alveo del movimento resistenziale italiano, nonostante le forti pressioni esercitate dai compagni sloveni affinché i comunisti giuliani facessero come quelli istriani, allineandosi alla linea politica ed al modello resistenziale jugoslavo, fino ad integrarvisi in maniera subordinata. Frausin da un lato stimolò all’azione le altre componenti antifasciste italiane, al punto da designare a capo del secondo CLN un sacerdote, don Marzari appunto, quale garanzia contro ogni timore di egemonia comunista; dall’altro si produsse in una difficile mediazione con i comunisti sloveni, che sembrò andare a buon fine nell’estate del 1944 quando CLN Alta Italia e OF raggiunsero un accordo che pareva salvaguardare l’autonomia del movimento partigiano italiano e rinviare al dopoguerra le defatiganti discussioni sul nuovo assetto del confine. Invece, ai primi di settembre i comunisti jugoslavi decisero di troncare ogni indugio e chiesero il pieno allineamento di quelli italiani alla strategia dell’OF, chiarendo che in tutta la regione di frontiera non vi sarebbe stato alcuno spazio per organizzazioni politiche e formazioni militari diverse da quelle dipendenti dal Fronte sloveno. Subito dopo, una ben mirata azioni di polizia nazifascista decapitò entrambe le organizzazioni comuniste a Trieste: ma se quella slovena potè presto riprendersi, quella italiana, privata della sua leadership storica, venne di fatto colonizzata dai comunisti sloveni ed abbandonò il Cln.

Quest’ultimo così, oltre a rimanere ancora più isolato ed oggetto di una campagna denigratoria presso il CLN Alta Italia da parte comunista, restò privo di contatti con le formazioni armate garibaldine operanti nei dintorni che fino a quel momento – se pur attraverso grandi difficoltà militari e politiche – si erano poste ai suoi ordini. Da parte sua, il CLN giuliano cercò di organizzare alcune unità clandestine, da utilizzare nel caso di uno scontro finale con i tedeschi. Considerata la penuria d’uomini, visto che la maggior parte dei maschi adulti stava o in prigionia, o in bosco con i partigiani oppure al lavoro nella Todt, il CLN infiltrò alcuni corpi organizzati, sia militari (guardia civica, vigili del fuoco, guardia di finanza, protezione antiaerea) che civili, come i ferrovieri. A questi si aggiunsero alcuni nuclei di giovanissimi e tutti insieme diedero vita ad alcune formazioni armate inquadrate nel Corpo volontari della libertà (CVL). Aiuto e protezione furono offerti anche dal sindaco Cesare Pagnini, che tenne contatti pure con l’OF.

Il CLN dunque nello scorcio finale del conflitto si presentava militarmente debole, politicamente isolato, espressione di un’etica della testimonianza che avrebbe dato frutto nel medio periodo ma che nell’immediato sembrava garanzia di sacrificio piuttosto che di successo. Eppure, ugualmente contava e preoccupava: se un Comitato di liberazione nazionale formato dai partiti antifascisti filo-italiani di orientamento liberal-democratico esisteva e si batteva, voleva dire che a Trieste si poteva essere patrioti italiani senza essere fascisti, e si poteva essere antifascisti senza volere la Jugoslavia. Ciò era sufficiente per mettere in crisi le pretese speculari di monopolio dell’italianità dei nazionalisti e collaborazionisti, come pure quelle di monopolio dell’antifascismo delle organizzazioni comuniste filo-jugoslave. Di conseguenza, nel corso del mese di aprile il CLN fu oggetto di due tentativi speculari di “cattura” politica: l’uno da parte dei collaborazionisti istituzionali (prefetto e podestà), l’altro da parte dell’OF.

L’offerta dei comunisti fu quella di dar vita ad un Comitato esecutivo antifascista italo-sloveno (CEAIS) di 11 membri: 8 italiani (di cui 3 designati dal CLN e 5 dalle organizzazioni di massa comuniste) e 3 sloveni. Ne sarebbero derivate una schiacciante egemonia comunista e l’accettazione da parte del CLN – ridotto a mera foglia di fico – della struttura organizzativa del Fronte di liberazione. La risposta fu ovviamente negativa e da quel momento in poi tutti i componenti del CLN vennero dai comunisti etichettati quali “nemici del popolo” da porre al più presto in condizioni di non nuocere.

L’offerta dei collaborazionisti fu invece quella di costituire un Comitato di salvazione nazionale, guidato dal prefetto: secondo tale schema, le formazioni armate della RSI, della Guardia Civica e del CVL avrebbero dovuto collaborare per controllare la città contro le formazioni comuniste, mentre i tedeschi cercavano di fermare le truppe jugoslave. Si trattava di una pura follia militare, posto che le forze della RSI erano allo sbando e di una catastrofe politica: in tal modo infatti tutte forze filo-italiane sarebbero apparse alleate dei tedeschi e di conseguenza i vincitori avrebbero legittimamente considerato fascisti tutti gli italiani meno i comunisti filo-jugoslavi. Neanche in questo caso i dirigenti del CLN abboccarono e perciò negli anni futuri si sarebbero esposti all’accusa di “tradimento nazionale” da parte dell’estrema destra.

In mancanza dunque di qualsivoglia accordo politico, all’appuntamento con la crisi finale ogni soggetto politico si presentò autonomamente, potendo far conto soltanto sulle proprie forze per cercare di realizzare strategie obiettivamente confliggenti. Quanto ai collaborazionisti, quelli istituzionali (prefetto e podestà) dovettero rinunciare al loro disegno di guidare la transizione al post-fascismo e se ne adontarono molto. Le unità della RSI invece si sbandarono, comandanti e gerarchi tentarono la fuga ed in buona parte ci riuscirono.

Il CLN decise di promuovere un’insurrezione armata contro i tedeschi: nella migliore delle ipotesi ciò avrebbe permesso al Comitato di liberazione italiano di consegnare la città agli alleati come autorità legittima, in ogni caso avrebbe testimoniato in armi il ruolo dell’antifascismo democratico italiano. L’insurrezione venne lanciata all’alba del 30 aprile e le formazioni del CVL riuscirono ad assumere il controllo di buona parte del centro città, con la cospicua eccezione di alcuni capisaldi tedeschi, come il castello di San Giusto ed il tribunale.

Contemporaneamente, un’altra insurrezione venne lanciata da Unità Operaia (UO), l’organizzazione di massa italo-slovena comunista. I combattenti di UO riuscirono a controllare le fabbriche, la periferia ed i rioni popolari, ma neanch’essi poterono nulla contro i capisaldi germanici.

In alcuni casi gli insorti del CVL e quelli di UO si batterono fianco a fianco e la loro azione comune permise ad esempio di salvare dalla distruzione le installazioni portuali. Ciò non toglie che quelle di Trieste del 30 aprile 1945 furono due insurrezioni parallele concorrenziali, caso unico in Italia ed in Europa occidentale, con qualche assonanza con le vicende polacche (insurrezione di Varsavia). Entrambe ebbero un successo solo parziale: com’era nelle intenzioni dei loro promotori, mostrarono che gli antifascisti triestini, seppur fra loro divisi, non intendevano attendere passivamente lo svolgere degli eventi, bensì erano capaci di assumere l’iniziativa dall’interno della città. Tuttavia la liberazione – o meglio, le liberazioni dai tedeschi – sarebbero venute dall’esterno, per opera delle truppe jugoslave e britanniche.

 

Bibliografia essenziale

Fogar, G., Trieste in guerra 1940-1945. Società e Resistenza, Irsml Fvg, Trieste 1999

Karlsen, P., Manenti, L.G., «Si soffre ma si tace». Luigi Frausin, Natale Kolarič: comunisti e resistenti, Irsrec Fvg, Trieste 2020

Spazzali, R., L'Italia chiamò. Resistenza politica e militare italiana a Trieste 1943-1945, Leg, Gorizia 2003.


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