Le relazioni fra la Resistenza italiana e la Resistenza jugoslava

Novecento



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di Patrick Karlsen

Agli inizi del 1944, i vertici politici dei movimenti di Resistenza italiano e sloveno convennero sulla necessità di coordinare gli sforzi alla frontiera alto-adriatica. Le aspettative su una rapida conclusione della Seconda guerra mondiale nel teatro europeo, coltivate dai resistenti jugoslavi all’indomani della capitolazione dell’Italia nel settembre 1943, si erano dissolte davanti all’energica reazione della Germania di Hitler. Nel clima di entusiasmo suscitato dalla resa italiana, i movimenti di liberazione sloveno e croato avevano emanato i decreti di annessione del Litorale alla Slovenia e dell’Istria e di Fiume alla Croazia, ufficializzando gli obiettivi territoriali inclusi nei loro programmi dopo l’invasione italo-tedesca alla Jugoslavia nel 1941. Tuttavia, la tenuta del fianco meridionale del fronte tedesco e la creazione della Zona di operazioni Litorale adriatico avevano mostrato chiaramente come la guerra fosse tutt’altro che in via di conclusione.

A compiere i primi passi in direzione di un accordo con il Comitato di liberazione nazionale alta Italia (Clnai) fu il Fronte di liberazione nazionale sloveno (Osvobodilna fronta – Of). Quest’ultimo era operativo dal 1941 nella porzione dei territori alto-adriatici riconosciuti nazionalmente misti dagli sloveni, corrispondenti a una buona parte della provincia chiamata da essi Litorale (valle dell’Isonzo e affluenti con Gorizia e Monfalcone, Trieste, costa fino al fiume Dragogna). Militarmente, inoltre, dal 1942 la Resistenza slovena aveva messo radici nel Friuli nord-orientale, dove dalla prima metà del 1943 si erano formati anche i primi distaccamenti partigiani sotto la direzione clandestina del Partito comunista italiano (Pci). Nel Litorale, la Resistenza italiana si era manifestata in forma organizzata e incisiva dalla fine dell’anno, anche qui soprattutto grazie all’iniziativa della Federazione regionale del Pci, risoluta ad applicarvi la linea elaborata dalla direzione Nord a Milano per l’Italia occupata dai tedeschi dopo l’8 settembre.

Nel resto della Venezia Giulia, cioè in Istria ma anche a Fiume, una serie di fattori (su tutti le difficoltà nei collegamenti con Trieste e la debolezza dell’iniziativa politica della direzione Nord del Pci) avevano invece complicato lo sviluppo della Resistenza italiana. Il movimento di liberazione croato a egemonia comunista era riuscito così a imporre il proprio monopolio nella guerra contro il nazifascismo, considerando come un fatto compiuto l’annessione dell’Istria e di Fiume alla futura Jugoslavia di Tito ed emarginando i compagni italiani restii a prenderne atto, fino al punto di eliminare uno dei loro leader storici (Lelio Zustovich, originario di Albona). Pertanto, da parte croata l’esigenza di scendere a negoziato con la Resistenza italiana non si avvertì e nessuna azione fu mai intrapresa in questo senso. Per di più, al momento dell’armistizio gli embrionali poteri popolari a guida comunista avevano scatenato in Istria un’ondata di violenza politica, dettata da intenti sia punitivi sia epurativi e intimidatori. Ne erano state colpite circa mezzo migliaio di persone, in genere esponenti della classe dirigente italiana (“foibe istriane”).

Diverso fu appunto il caso dell’Of e del Litorale. A spingere verso un accordo con la Resistenza italiana vi era non solo la necessità di massimizzare gli sforzi congiunti nella guerra di liberazione, ma anche quella di gettare le basi per una forma concordata di governo del territorio che avvantaggiasse i comunisti al momento del tracollo tedesco. Per prima cosa però era necessario rimuovere gli ostacoli emersi fino a quel momento a livello di organizzazioni di partito e di reparti partigiani delle due nazionalità. Inizialmente, infatti, i comandi sloveni si erano dimostrati avversi a tollerare l’attività della guerriglia partigiana italiana nelle zone ritenute di loro esclusiva pertinenza e reclamate dall’Of, pretendendo che essa si sviluppasse soltanto al di là del fiume Tagliamento oppure si rimettesse ai propri ordini. Data per persa l’Istria nei confronti dei croati, Il Pci era deciso a non arrendersi senza condizioni con gli sloveni per quanto riguarda il Litorale, anche perché consapevole dell’importanza che il destino di Trieste aveva per i suoi alleati nel Clnai. Aveva dunque protestato, rivendicando il diritto a organizzare le proprie bande partigiane e dichiarando prematura ogni decisione relativa ai futuri confini. In ciò il Pci si appellava al diritto delle popolazioni interessate all’autodecisione, in continuità con le posizioni maturate sulla questione nazionale negli anni Trenta.

Alla fine di novembre 1943 si era giunti a un primo accordo in ambito locale, siglato a Imenia sul Collio, fra rappresentanti del Pci e del Partito comunista sloveno (Pcs). In base a esso il Pci riconosceva subito l’annessione alla Slovenia dei territori compattamente sloveni e il Pcs accettava la presenza della Resistenza armata italiana sui territori nazionalmente misti e contesi. La loro sorte definitiva si sarebbe decisa una volta sconfitto il nemico comune.

Tuttavia un’intesa sembrava ancora più urgente trovarla a Trieste e Gorizia. Qui i due partiti operavano in modo parallelo, applicando due diverse concezioni del Fronte nazionale (la politica rilanciata dall’Urss dopo l’invasione nazifascista del 1941) e seguendo di fatto due linee diverse. Il Pci, in coerenza con le direttive della direzione Nord, sedeva nel Cln in posizione paritaria con gli altri partiti antifascisti (o cercava di costruirlo in tale forma) all’interno di uno schema pluralista, mentre lavorava per uno sciopero nelle fabbriche come preludio all’insurrezione operaia. Il Pcs dominava l’Of aggregandovi le sue organizzazioni di massa e puntava tutto sulla guerra partigiana, interpretandola come il motore del proprio risorgimento nazionale e come il battistrada della rivoluzione politico-sociale, con il “potere popolare” rappresentato in nuce dall’Of. Oltre a continue incomprensioni e dannose sovrapposizioni, l’attrito fra le due linee aveva provocato un incidente piuttosto serio nel febbraio 1944. Il battaglione italiano “Giovanni Zol” nell’alta Istria era sceso verso Trieste per coadiuvare uno sciopero (poi fallito) indetto dalla Federazione del Pci, staccandosi in tal modo dall’odred sloveno cui rispondeva militarmente. Quest’ultimo lo aveva considerato un atto di diserzione, sciogliendo il battaglione e facendo fucilare il comandante e il suo aiutante.

L’accordo stretto a livello di vertice fra il Pci e il Pcs nell’aprile 1944 cercò dunque di appianare tali contrasti, anche in risposta alle sollecitazioni provenienti ai due partiti da Mosca. Sulla questione territoriale fu confermato l’impianto dilazionante stabilito a Imenia, vitale per la credibilità della politica nazionale del Pci. Ma dal punto di vista politico-organizzativo si andò ben oltre. Il Pci infatti si mostrò disponibile ad accogliere la linea del Pcs, sia in tema di un maggior investimento nella guerra partigiana, sia nell’aprire i Cln alle organizzazioni di massa, per trasformarli in prospettiva nei “poteri popolari” di impronta jugoslava. Il laboratorio di questa politica doveva essere la frontiera orientale. Qui i Cln dovevano subito dare vita al “potere popolare” insieme all’Of e veniva formata la brigata “Garibaldi-Trieste”: parte integrante del Corpo volontari della libertà italiano ma operativa nella zona del 9° korpus dell’Esercito di liberazione jugoslavo, perciò subordinata a un comando paritetico italo-sloveno.

Il Pci e il Pcs si prepararono così le condizioni ottimali per avviare le trattative fra i due movimenti nazionali di resistenza, cioè tra il Clnai e l’Of. Adottando i contenuti essenziali della linea jugoslava, la direzione Nord del Pci sperava di rafforzare la sua egemonia nel Clnai e in generale la propria leadership nella lotta di liberazione, esattamente come ai compagni sloveni era riuscito di fare a casa loro. Il Pcs invece mirava a esercitare un’influenza complessiva sulla Resistenza italiana, da un lato per agevolare la realizzazione delle sue ambizioni territoriali, dall’altro per candidare un domani la nuova Jugoslavia di Tito a potenza di riferimento nell’Europa mediterranea e balcanica. Dal canto suo, sedendosi al tavolo con l’Of, il Clnai pensava di ottenere un riconoscimento internazionale importante come aspirante forza di governo, essendo il movimento di liberazione jugoslavo a tutti gli effetti un alleato della coalizione anti-hitleriana (ignorando la limitatezza delle competenze e delle pertinenze regionali dell’Of). In aggiunta, i partiti liberal-democratici volevano concordare con l’Of la gestione politica delle regioni di frontiera all’indomani della Liberazione, per lasciare impregiudicato il destino di Trieste e per impedire il ripetersi delle ritorsioni messe in atto in Istria contro la popolazione italiana dopo l’8 settembre.

Il Clnai recepì in toto gli accordi fra Pci e Pcs ai primi di giugno 1944. Ne venne fuori una lettera-manifesto indirizzata alle popolazioni italiane della Venezia Giulia, per incitarle a partecipare alla lotta armata a fianco degli sloveni e dei croati. Il manifesto ammetteva il diritto della Slovenia a essere unita e indipendente (l’aggressione italo-tedesca l’aveva cancellata dalla carta geopolitica del continente) e riconosceva le annessioni proclamate dall’Of dopo l’8 settembre per i territori compattamente sloveni, mentre demandava al dopoguerra la soluzione per quelli nazionalmente misti. Di fatto, Il Clnai assumeva sulla questione nazionale la posizione da tempo elaborata dal Pci.

Inoltre, i circoli dirigenti dell’antifascismo non comunista della regione venivano esortati a creare i Cln su base di massa ed erano sferzati duramente per il loro immobilismo. Il Clnai si riferiva soprattutto alla situazione di Trieste. Se a Gorizia infatti un Cln per lo meno esisteva con continuità e ad aprile aveva accettato di scendere a patti con l’Of, al momento dell’invio della lettera-manifesto il Cln ancora non si era costituito nel capoluogo giuliano a causa dell’indisponibilità della Democrazia cristiana (Dc) e del Partito d’azione (Pd’a) locali a collaborare con i resistenti jugoslavi. I due partiti si rifiutarono di divulgare il manifesto perché esso ammetteva le annessioni delle zone compattamente slovene alla Slovenia e conteneva un esplicito richiamo ai decreti dell’Of del settembre 1943, respingendo perciò anche il principio dell’autodecisione da far valere nel dopoguerra. Infatti, la Dc e il Pd’a di Trieste non si smuovevano dalla difesa intransigente dei confini ante-guerra tracciati dal trattato di Rapallo (1920). Un trattato che aveva incluso nello Stato italiano circa mezzo milione di slavi, poi perseguitati dal fascismo, e che l’Italia stessa aveva svuotato di ogni valore invadendo la Jugoslavia. Rappresentanti di entrambi i partiti e del Pci dovettero essere perciò convocati a Milano alla ricerca di un compromesso. Grazie alla sintonia qui stabilitasi in extremis fra Luigi Frausin, segretario della Federazione comunista della Venezia Giulia, e don Edoardo Marzari, rappresentante della Dc e presidente del neo-costituito Cln giuliano su indicazione proprio di Frausin, da un nuovo documento sparì il richiamo ai decreti dell’Of ma emerse l’accettazione della Dc e del Pd’a a considerare superati i confini di Rapallo.

A luglio 1944, Clnai e Of tornarono così a riunirsi. Da parte italiana si riteneva che ci fossero ormai gli ingredienti adatti a raggiungere un accordo globale con la Resistenza jugoslava. Il delegato dell’Of, al contrario, non solo fece presente che ogni questione di interesse dei croati doveva essere discussa direttamente con costoro (a maggior ragione quelle riguardanti i confini), ma dichiarò di reputare un passo indietro il mancato riferimento ai decreti nel nuovo documento, rifiutandosi dunque di firmare la sezione politica dell’accordo. Nulla obiettò invece sulla sezione organizzativa, che decideval’attivazione dei “poteri popolari” nel Litorale attraverso la giunzione del Cln e dell’Of e disponeva un ingente aiuto finanziario del Clnai all’Of stesso. A Trieste quindi cominciò a funzionare un Comitato antifascista di coordinamento (Cac), che si configurò quale massimo organo politico della Resistenza italo-slovena della regione e rappresentò il culmine degli sforzi di mediazione portati avanti dal Pci di Frausin per unire l’antifascismo delle due nazionalità.

Il Cac tuttavia ebbe vita assai breve, non solo perché alla fine di agosto la polizia nazifascista catturò i due membri italiani (Frausin e l’azionista Umberto Felluga), ma perché nelle stesse settimane la Resistenza jugoslava esplicitò la cosiddetta “svolta d’autunno”, per un complesso di ragioni legate all’andamento del conflitto e al precisarsi delle sfere di influenza in Europa. Si trattava di uno strappo volto ad anticipare a ogni costo l’arrivo degli angloamericani nel Litorale, prendervi il potere in maniera esclusiva e procedere alla sua annessione alla Slovenia. Una politica del fatto compiuto nei confronti degli alleati che rese obsoleti gli accordi già parziali appena siglati con il Clnai (il delegato dell’Of che condusse le trattative a Milano cadde per un periodo in disgrazia) e ruppe in modo unilaterale quelli assunti fra Pci e Pcs in aprile.

La scelta del Pci di assecondare la svolta dei compagni jugoslavi ebbe sul piano interno un costo politico elevatissimo, a cui il segretario Palmiro Togliatti si affannò più tardi di porre rimedio. Nell’immediato, essa produsse una lacerazione insanabile nelle file della Resistenza alla frontiera. I comunisti italiani erano stati il tramite principale nei rapporti fra le due Resistenze a ogni livello e ora tale funzione veniva meno, contribuendo al drammatico precipitare dei rapporti stessi. Le formazioni garibaldine nella zona rivendicata dal Pcs furono spostate all’interno della Slovenia di comune accordo con il Pci, mentre la 1ª brigata “Osoppo” che si oppose al trasferimento fu annientata a Porzûs da una squadra Gap (Gruppi di azione patriottica) dipendente dal Pci di Udine. A Gorizia e a Trieste, i comunisti chiesero ai Cln di accettare l’annessione delle due città alla Jugoslavia, con quello di Trieste che ritornò per reazione a difendere i confini di Rapallo. Nei mesi seguenti ogni ipotesi di ricucitura si rivelò impraticabile. Alla frontiera alto-adriatica, la Guerra fredda era già arrivata.

 

Bibliografia essenziale

Cattaruzza, M., L’Italia e il confine orientale, il Mulino, Bologna 2007

Čepič, Z., Guštin, D., Troha, N., La Slovenia durante la Seconda guerra mondiale, Ifsml, Udine 2013

Fogar, G., Trieste in guerra 1940-1945. Società e Resistenza, Irsml Fvg, Trieste 1999

Karlsen, P., Manenti, L.G., «Si soffre ma si tace». Luigi Frausin, Natale Kolarič: comunisti e resistenti, Irsrec Fvg, Trieste 2020

Pupo, R., Trieste ’45, Laterza, Roma-Bari 2010


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