Il fronte dell'Isonzo

Novecento



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di Angelo Visintin

Nel primo decennio del Novecento le relazioni all’interno della Triplice Alleanza, il patto politico e militare che nel 1882 l’Italia aveva sottoscritto con la Germania e l’Austria-Ungheria, iniziarono a deteriorarsi. In tale contesto non venne meno la partecipazione del Regno alle intese con gli alleati, tanto che la convenzione militare venne regolarmente rinnovata nel marzo 1914. Gli stati maggiori continuavano ad operare in stretto collegamento, perfezionavano la cooperazione delle forze di terra e di mare, rivedevano le pianificazioni. Né si dimentichi che il nostro ambiente militare, dal conflitto franco-prussiano del 1870-71, era profondamente debitore alla dottrina, alla mentalità e all’organizzazione germaniche; come d’altra parte il continente tutto.

Quando, mal condotta la sfida del rischio calcolato, nell’agosto 1914 le principali nazioni europee si trovarono trascinate nello scontro armato, la scelta di neutralità dell’Italia disorientò gli alti vertici del Regio Esercito e della Marina, assuefatti a uniformare forze, apparati e arte militare agli indirizzi della Triplice e a considerare remota la possibilità di scenari alternativi. È da dire che negli equilibri interni e nella conduzione dello strumento bellico il momento fu reso ancor più incerto dal decesso del Capo di stato maggiore dell’esercito, generale Pollio, e dalla designazione di un successore, il generale Luigi Cadorna, nella condizione di dover ancora prendere possesso dell’articolato sistema militare.

Il lavoro svolto da Cadorna fu in principio conforme a un possibile fiancheggiamento dei tradizionali alleati, poi dalla fine di agosto repentinamente trasformato in un progetto di guerra contro l’Austria, accompagnato persino dalla proposta della mobilitazione generale prima dell’inverno. La direzione antitetica dei disegni bellici rifletteva del resto l’attendismo della politica estera italiana, a sua volta sensibile a ciò che accadeva sui campi di battaglia, e le spinte opposte del sentire pubblico.

Il Capo di stato maggiore desisté dai disegni offensivi entro il 1914. Quando l’indirizzo della diplomazia italiana lasciò delineare con maggior certezza il rovesciamento delle alleanze Cadorna accelerò i preparativi militari. Si riprendevano ed elaboravano antichi piani di guerra al confine orientale, risalenti a studi del generale Cosenz. Erano previste azioni di difensiva attiva nel quadrante nord-occidentale della frontiera con l’Austria ˗ con iniziative di settore atte a recidere il saliente trentino ˗ accordate all’offensiva strategica sulla linea dell’Isonzo e a una concomitante azione d’aggiramento lungo l’asse Tarvisio-Villach. L’intento, superate le difese avversarie nel Goriziano lungo la linea del Vipacco, era di affrontare lo schieramento austro-ungarico nella valle della Sava, tra Kranj e Lubiana, con i dettami della guerra manovrata. La concezione cadorniana del comando, condivisa con gli altri capi militari europei, era rigidamente offensivista, sul versante strategico quanto su quello tattico. Non è un caso che nel febbraio 1915 il generale imponesse, quale vademecum per l’ufficialità, la circolare Attacco frontale e ammaestramento tattico, compendio dottrinario della sua visione di impiego e movimento della truppa sul terreno: l’iniziativa sul campo era finalizzata all’attacco frontale a successione di ondate, sino allo sfondamento dello schieramento nemico, valorizzando lo spirito aggressivo e la motivazione morale. Nell’inverno, il Capo di stato maggiore si adoperò a reintegrare le dotazioni di materiali ed armamenti, a rivedere i dispositivi di mobilitazione e radunata delle forze, a potenziare il corpo degli ufficiali, a far assimilare nell’addestramento le proprie dottrine tattiche.

La retorica del nazionalismo poi ha descritto l’apparato militare italiano dell’Italietta giolittiana come del tutto impreparato ad un conflitto moderno. Certo, può valere per il Paese la reputazione di “ultima delle grandi potenze” ed è sicuro che le operazioni in Libia e ora in Albania gravavano sull’opera di rinnovamento tecnico e sull’organico, ma le spese per le forze armate nel decennio erano cresciute, e di molto; in generale lo strumento militare era da considerarsi solido. Del resto, la struttura dell’esercito dell’Isonzo e del Carso trova lontano le sue radici, in parte nel processo di fusione delle milizie preunitarie, in parte nell’assetto dato dalle vaste riforme degli anni Settanta.

Lo scontro tra le nazioni intanto seppelliva le previsioni della guerra immaginaria, ipotizzata quale offensiva, breve (lo avrebbero richiesto i principi economici degli Stati moderni!), preparata con studiate procedure organizzative e operative, conclusa con un’immancabile battaglia risolutiva. Quasi ovunque le linee di contatto degli eserciti si arrestarono, bloccate su contrapposte linee di trinceramenti. Ebbe inizio la guerra di posizione, imposta da una concreta equivalenza di uomini e arsenali e dalla comunanza di ordinamenti e concetti strategici tra le coalizioni in lotta, private così di una reale possibilità di vittoria.

Aperte le ostilità con la Duplice monarchia, il piano di far irruzione oltre l’Isonzo si scontrò subito con la scabra orografia del territorio solcato dal fiume. Il percorso dell’Isonzo alto e medio è per gran parte irregolare; da Plezzo sin quasi sopra Gorizia lo cingono montagne dirupate e aspre. Il fiume procede tra gole scoscese, ma apre agli slarghi delle conche di Plezzo, Caporetto e Tolmino, obiettivi concomitanti dell’avanzata italiana. Sotto Tolmino, in particolare, gli austriaci crearono una pericolosa testa di ponte sulla riva destra. Muovendo verso sud, a mancina dell’Isonzo si staglia l’altopiano della Bainsizza: un pianoro calcareo, riarso, pieno di solchi e depressioni. L’acrocoro è chiuso, sempre sul lato di sinistra, dalla linea dei monti Kuk, Vodice, Santo. A Plava gli italiani riuscirono a costituire una testa di ponte su questa riva, uno dei cardini delle nostre operazioni sino a quasi tutto il 1917. Sotto Gorizia, il basso Isonzo fluisce in una zona pianeggiante, scorre per un tratto ai piedi dell’altopiano carsico, poi se ne discosta e sfocia nel golfo di Panzano, al sommo dell’Adriatico. In merito all’orografia, la conca di Gorizia, nelle intenzioni uno dei primi traguardi degli attacchi italiani, è protetta ad oriente dai monti San Gabriele, San Daniele e San Marco, ad ovest, invece, da una corona di alture ˗ il monte Sabotino e rilievi minori ˗ che permisero agli austriaci di tenere a lungo un’altra testa di ponte sulla destra dell’Isonzo e difendere la città. A sud di Gorizia si schiude il pietroso e aspro tavolato del Carso. Man mano che avvicina il mare, esso compie un arco a rientrare, appoggiandosi ad alcune colline che dominano la pianura: tra esse, il San Michele. Queste sono il lato occidentale di un romboide che, includendo il Carso goriziano e quello monfalconese, a sud si chiude con il Golfo di Panzano, ad oriente con un segmento in cui primeggia il massiccio collinare dell’Ermada, a nord con il fiume Vipacco e il suo orlo montuoso. Nella strategia di Cadorna la vallata del Vipacco, affluente di sinistra dell’Isonzo, doveva essere la principale direttrice della penetrazione verso Trieste e Lubiana. Questo in sintesi fu il campo di battaglia dell’Isonzo per quasi due anni e mezzo e costò alla sola parte italiana quattrocentomila morti e altre centinaia di migliaia fra feriti e dispersi. A quella austriaca, non molto meno.

Nell’ultima settimana del maggio 1915, quando con gran cautela l’esercito italiano si mosse verso i punti di avvicinamento alle difese avversarie, gli imperiali stavano quasi ovunque completando, benché in maniera disomogenea e convulsa, le fortificazioni campali sulle parti dominanti di monti e colline, dopo aver sgomberato la popolazione civile. Anche i comandi austriaci allora pensavano all’ineluttabilità di uno scontro risolutivo nella pianura slovena. Sul fronte dell’Isonzo il Capo di stato maggiore aveva schierato due grandi unità, la II Armata sul corso alto e medio del fiume compresa Gorizia, la III da lì al mare. La fascia della bassa pianura oltre il confine del 1866 e l’area pedecarsica furono occupate solo entro la prima decade di giugno. D’appresso, ebbe inizio l’urto con i trinceramenti austriaci posti sul ciglione dell’altopiano carsico e sui rilievi del medio Isonzo. Sulle montagne dell’alto Isonzo vennero svolte operazioni più limitate. A sventare gli attacchi, il comando austriaco dispiegò su tutto l’arco delle Alpi Giulie la 5ª armata del generale Svetozar Boroević. I ritardi di Cadorna ne avevano consentito lo spiegamento.

Tra la fine di giugno e i primi giorni di dicembre del 1915 con quattro replicate offensive (“spallate”) il generale cercò di forzare le posizioni nemiche, muovendo ora dalla destra ora dalla sinistra del proprio dispositivo sull’Isonzo. Gli esiti, quando le attività vennero sospese per la pausa invernale, si dovettero considerare sterili. I tentativi dalla testa di ponte di Plava, sul Carso (il San Michele fu preso e perduto più volte), sulle alture prospicenti Gorizia non sortirono l’effetto voluto. Alla fine, gli italiani avevano raggiunto o superato il bordo dell’altopiano carsico, fatto progressi sulle colline davanti a Gorizia, ottenuto qualche guadagno nel medio Isonzo, ma in generale la guerra di posizione, statica e logorante, si era imposta anche in questo teatro. Non vi era stata la rottura strategica cercata dal Comando supremo.

Il potere distruttivo di mitragliatrici, artiglierie e trincee si era rivelato insormontabile. Le truppe ungheresi e slave della Monarchia avevano mostrato un’ostinata capacità di resistenza. Ma da parte italiana erano stati compiuti molti errori e molte improvvisazioni: la mobilitazione e la radunata tardive e sovrapposte, la dispersione delle forze, i ritardi nel primo balzo verso l’Isonzo. Soprattutto emergono in negativo il ricorso all’assalto frontale con formazioni dense quale unica condotta tattica, l’impiego dispersivo e poco coordinato dell’artiglieria, il collegamento inadeguato tra i reparti e nella catena di comando, in generale il conformismo della guida militare, che identificava i valori assoluti nella supremazia dell’urto e del “morale”, nello “slancio”, nello spirito offensivo. L’esercito italiano così viveva il senso di frustrazione nei risultati strategici che gli altri eserciti europei avevano già sperimentato e non ancora superato. Nella direzione del conflitto si imponeva alle nostre autorità militari un faticoso aggiustamento della tattica, dell’organica, delle risorse tecniche, del sistema dei rifornimenti e dei trasporti, chiamando in causa tutte le potenzialità della nazione, produttive e umane. L’adeguamento fu arduo e non portò a risultati conclusivi.

Le offensive italiane ripresero con la quinta “spallata” del marzo 1916, i cui esiti furono simili ai precedenti. Sulle Alpi Giulie i comandi austriaci avevano rafforzato la linea fortificata, ormai costituita da più ordini di trincee; una difesa più elastica prese il posto di quella rigida. Dopo aver deviato il centro delle operazioni sugli Altipiani, a causa della “spedizione punitiva” austro-ungarica, respinta con molta difficoltà, Cadorna riprese lo sforzo dell’attacco sull’Isonzo nell’agosto 1916 con la sua manovra forse meglio diretta. La sesta offensiva portò a scardinare le difese imperiali ai margini settentrionale (Sabotino) e meridionale (San Michele) del campo trincerato di Gorizia e consentì, superate le alture antistanti, la presa della città e lo spostamento in avanti del fronte. L’espugnazione dei monti ad est del capoluogo e lo sfondamento lungo il Vipacco non furono tuttavia conseguiti, per l’impiego di forze ancora troppo ridotte e la mancanza di riserve, l’incapacità dei comandi di sfruttare il successo e l’irrigidimento della resistenza austriaca su linee arretrate. Il significato simbolico del fatto d’armi fu nondimeno di notevole risalto. Invece un inutile dispendio di forze e risorse fu rappresentato dalle operazioni dell’autunno, condotte sul Carso per intaccare i margini meridionali del Vipacco e tentare al contempo di aggirare da nord il massiccio collinare dell’Ermada, ostacolo sulla strada verso Trieste. La settima, l’ottava e la nona offensiva, condotte ostinatamente con la tattica consueta ma ormai con l’impronta delle battaglie di materiale, non modificarono il quadro strategico e causarono un pesante logoramento delle forze impegnate, testimoniato dalla crescita di atti individuali di disagio e di fuga dalla guerra.

Le campagne del 1917 segnarono il culmine dell’impiego di armati e armamenti sul fronte giuliano. Se l’obiettivo era tuttora lo sfondamento nella valle del Vipacco, si voleva favorirlo con azioni a nord (antemurale dei monti che proteggevano la Bainsizza e altopiano) e a sud (bordo settentrionale del Carso); parimenti sarebbe proseguito lo sforzo sull’Ermada. Nella decima offensiva, a maggio, facendo leva sulla testa di ponte di Plava le fanterie italiane ebbero ragione delle difese del Kuk e del Vodice, ma dovettero fermarsi. I progressi ottenuti sul Carso in avvicinamento all’Ermada vennero in gran parte azzerati da una brillante reazione avversaria. L’undicesima offensiva, ad agosto-settembre, fu condotta nell’indirizzo della precedente, estendendo però l’attacco verso la testa di ponte austriaca di Tolmino, e con uno schieramento di truppe e di mezzi sinora mai visto. Sul Carso, inutili si dimostrarono gli assalti sulle falde dell’Ermada. Nel medio Isonzo, la puntata verso Tolmino fallì, ma superata la resistenza sul Monte Santo, la parte più occidentale dell’acrocoro della Bainsizza venne occupata dagli italiani. Ne derivò un saliente che, seppure troppo esposto, incombeva sulle difese austriache del Carso. Il logoramento e la stanchezza dei reparti comunque avevano raggiunto il limite. D’altra parte, il dispositivo di difesa austro-ungherese era stato in procinto di crollare e la tenuta delle posizioni era stata raggiunta allo stremo delle forze, perdendo terreno. L’origine dello scacco di Caporetto affonda anche in queste situazioni.

Gli attacchi del 1917 furono condotti, a parte il maggior supporto di artiglieria e armi di squadra, con assalti ad oltranza, senza modificare nella sostanza i criteri tattici dei due anni precedenti. Se, entro certi termini, per le scelte e l’economia strategica dell’esercito asburgico la difensiva sul fronte meridionale si presentava necessaria, la dogmatica e caparbia reiterazione delle modalità offensive tradizionali da parte dei comandi italiani mostra l’immobilismo del pensiero militare nazionale. Si aggiungano l’isolamento del Comando supremo dal Paese e le tensioni con governo e parlamento, i dissidi tra gli alti vertici, la dannosa gestione della truppa, la tendenza al superfluo allargamento della manovra.

Il motivo della grave sconfitta italiana sul campo di battaglia dell’Isonzo sta nell’intento dei capi militari austriaci di far retrocedere l’avversario e di recuperare il terreno perduto nelle ultime offensive. L’operazione, tra Plezzo e Tolmino, fu stabilita di comune accordo con il comando germanico, che propose di ampliare gli obiettivi strategici e spostò sulla linea dell’Isonzo reparti esperti. Nonostante le contromisure di Cadorna, d’altronde vaghe, la sorpresa riuscì pienamente.

Preceduta all’alba del 24 ottobre 1917 da un preciso e breve bombardamento, l’infiltrazione di nuclei d’assalto austro-tedeschi ebbe ragione facilmente delle difese più avanzate e aprì la strada alle fanterie. La reazione italiana fu caotica e inefficace. Sfociati nella valle di Caporetto, gli attaccanti penetrarono con forza nello schieramento della II Armata, determinandone lo sfaldamento, e puntarono alla pianura. Il Comando supremo si era mostrato dapprima incapace di valutare i segnali preoccupanti inviati dai centri d’informazione e ora nell’azione non comprese la rilevanza dell’offensiva e diede disposizioni contraddittorie. La catena gerarchica si disgregò, alcuni comandi inferiori agirono tardivamente o non furono raggiungibili. La carenza di truppe di riserva dell’armata, bruciate peraltro nel tentativo di fermare l’avanzata, rese la situazione non più recuperabile. Per impedire l’aggiramento della III Armata Cadorna il 27 ordinò il ripiegamento generale verso il Tagliamento, dove prima del conflitto erano state allestite imponenti fortificazioni. Perduta Udine, “capitale della guerra”, tutte le energie del Comando supremo furono dedicate a pianificare un arretramento il più possibile ordinato.

Lo sfilamento della III Armata procedette con una certa regolarità, seppur con l’abbandono del materiale pesante e dei depositi, ma la rotta delle altre unità mostrò il venir meno della disciplina: la truppa perse l’inquadramento, i vincoli gerarchici vennero meno. È il volto della ritirata avvertita poi dai memorialisti quale “sciopero militare”, “Babilonia”, “rivoluzione”. Questi fenomeni di psicologia di massa, correlati al diffuso malcontento di soldati obbligati ad assalti privi di sbocco, hanno un loro peso, nella realtà effettuale e nella memoria. Pure, per gli storici la ritirata di Caporetto è il frutto di una sconfitta dal carattere prima di tutto militare. Accantonati il Tagliamento e poi il Livenza quali possibili linee di arresto, le truppe superstiti si attestarono nella prima decade di novembre sul nuovo fronte degli Altipiani, del Grappa, Montello e Piave, mentre la pressione austro-tedesca perdeva lo slancio: le operazioni vennero sospese alla fine del mese. Trecentomila prigionieri erano caduti in mano agli imperiali, unitamente a enormi quantitativi di materiale; gravissime le perdite, molti gli sbandati. Le manifestazioni d’indisciplina però in gran parte erano rientrate. Il generale Cadorna venne esonerato dal comando.

Ciò che era stato il fronte dell’Isonzo, con la sua bardatura bellica, rimase in uno stato di abbandono, qui e là attenuato dal rientro dei profughi. Le truppe italiane si riaffacciarono oltre il vecchio confine sugli sviluppi dell’offensiva di Vittorio Veneto, nei primi di novembre del 1918, a premessa dell’occupazione dell’intera Venezia Giulia.

 

 

Bibliografia essenziale

 

Fabi Lucio, Gente di trincea. La Grande Guerra sul Carso e sull’Isonzo, Mursia, Milano 1994

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