Le Corporazioni d'arti e mestieri nell'età moderna

Età moderna



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di Michela Giorgiutti

Un'organizzazione centrale nel tessuto sociale ed economico delle comunità d'Antico Regime, che per certi aspetti, strutturali e operativi, si pone in continuità con il Medioevo, è rappresentata dall'istituto corporativo dei lavoratori di diverse arti e mestieri. Queste associazioni, basate su forme pluralistiche di gestione della produzione e del mercato, riuscirono a diventare reti di connessione interpersonale con le istituzioni e la loro lunga durata dipese sia dal loro adeguamento ad un sistema di ordine sociale fondato sulla gerarchia, tipico del tempo, sia dalla volontà di tutelare la propria attività, inserendosi nella vita comunitaria.

La corporazione ha dimostrato una certa incisività nell'ambiente di appartenenza, soprattutto in termini di scambi clientelari, di organizzazione sociale e di attività mercantile; il suo intento, diretto a creare una rete di protezione per i propri aderenti, si coniugava con il controllo sulle produzioni, favorendo la formazione di una micro società autodiretta. Infatti, aggregarsi ad essa significava accettare un vincolo mutualistico, che comprendeva un circuito di diritti, doveri, favori, debiti. Il giuramento degli affiliati ad un codice di norme condivise, lo statuto, che fissava le consuetudini e richiedeva fedeltà e impegno, sanciva l'entrata del singolo nel corpo associativo e la sua collocazione all'interno di un sistema articolato, che da un lato organizzava il lavoro secondo la reciprocità del controllo mediante una regolazione congiunta dei contrasti e dall'altro si inseriva nella quotidianità della vita familiare, stabilendo doveri di solidarietà, di mutua assistenza, di carità, dimostrando una matrice comune con la struttura delle associazioni devozionali laiche. In origine, infatti, le corporazioni, chiamate in territorio veneto anche fraglie, si costituivano sotto l'egida di un santo patrono, sull'esempio delle confraternite di devozione, con cui condivisero in primis gli scopi assistenziali e caritativi.

Nel Cinquecento il modello veneto fece assumere al regolamento di associazione un carattere più professionale, in cui la preoccupazione principale dei componenti era di stabilire le modalità di ammissione, le condizioni lavorative e la difesa degli interessi corporativi. Tale codice statutario, che implicava l'approvazione da parte dell'autorità di governo, riceveva nel corso del tempo continue modifiche e adattamenti, in conseguenza all'emergere di nuove esigenze interne (quote d'iscrizione, diritti e doveri degli associati) e alle mutazioni nell'organizzazione economica della società. In particolare, il Consiglio della città approvava o respingeva la redazione dello statuto, sulla base della pertinenza ai pubblici esercizi. Molte furono le riedizioni degli statuti a metà del Seicento, quando le condizioni lavorative cambiarono la loro dimensione sociale e la Serenissima estese alla Terraferma (il 21 luglio 1650) la tansa, ossia l'imposizione fiscale su beni, denaro e attività mercantili che, diventando permanente, andò ad incidere sui profitti delle arti e dei singoli esercizi. A fronte di tali cambiamenti, ogni corporazione adottò strategie proprie per adeguare o per difendere il proprio ruolo microeconomico, sia a livello comunitario che familiare. Dalla persistenza e reiterazione di alcuni articoli statutari, emergono le preoccupazioni principali dei corporati: la prima, di carattere interno, riguardava la gestione dei diritti dei lavoranti di attività subalterne nella catena della produzione, i quali nel Cinquecento espressero il loro malcontento, alimentando i contrasti tra professioni tangenti (per esempio tra calzolai e ciabattini), che si accusavano reciprocamente d'invadere i rispettivi campi di competenza; la seconda minaccia proveniva dall'esterno della corporazione e riguardava la presenza sul territorio locale di forestieri, i quali, esercitando il medesimo mestiere dei corporati, venivano incolpati di entrare in concorrenza sleale.

Le corporazioni di arti e mestieri che interessarono la Patria del Friuli annoverarono diverse produzioni specialistiche, spesso abbinanti la produzione al commercio. I comparti principali riguardarono il settore alimentare, quello tessile, la lavorazione dei metalli, del legno e delle pelli. Alcuni di essi si costituirono in fraglie, altri invece mantennero un libero commercio. La loro presenza si concentrava nei centri economici più vivaci e negli agglomerati urbani principali, in cui trovarono uno spazio di mercato i fornai, i sarti e i calzolai, i fabbri e i marescalchi, gli scultori e gli intagliatori, i salumieri, gli speziali, i venditori di panni, i vetrai e gli indoratori, i tintori e i tessitori, i pellicciai, i librai e gli stampatori, i barbieri, i vetturini. Questo elenco comprende solo le principali tipologie dei mestieri esercitati durante il periodo di dominazione veneziana, altre specifiche micro professioni costellavano il panorama lavorativo friulano (si considerino a riguardo i lattonieri, i berrettai, i facchini, i vasai).

Fabbri, muratori e falegnami furono tra i primi a riunirsi in fraglie già nel Quattrocento, quando presero corpo i tratti della corporazione di mestiere, attraverso l'obbligo d'iscrizione per poter esercitare e l'adozione di un regolamento per la gestione dei magazzini a disposizione dei soci su pagamento di una quota; negli statuti del primo Cinquecento la linea protezionistica si esplicò ostracizzando i forestieri e proibendo ai fabbri e ai calderari pedemontani di operare nella città di Udine, se non previo consenso dei deputati. Per tutta l'età veneta, l'attività fabbrile fu capillarmente presente in pianura e in collina; nei centri mercantili di Pordenone (1584) e di Gemona (1678), dove fabbri e calderari si raccolsero in fraglia nel nome di un santo patrono (S. Eligio a Pordenone, S. Nicolò a Udine).

A Udine, muratori e falegnami si riunirono nella Scola dei Santi Sebastiano e Fabiano (primi statuti nel 1496), organizzando una corporazione che assieme a quella dei sarti costituì oggetto di un'intensa attività normativa, rendendo manifeste le relazioni conflittuali con i deputati e la città. L'intento della Scola era conseguire un controllo monopolistico sull'intera attività, che prevedeva determinate modalità di lavoro anche per chi non era iscritto alla fraglia. Quando, nel 1528, vennero compilati i nuovi statuti, particolare attenzione fu posta alla qualità del lavoro, il cui esercizio venne subordinato al superamento di una prova di idoneità, sostenuta alla presenza di testimoni. Contrariamente ad altri comparti, questa corporazione si mostrò inclusiva delle diverse specializzazioni delle fasi di lavoro, arrivando a comprendere, nel Settecento, altre tipologie affini ma specifiche (i tagliapietra, i fregadori, i segati). Nella redazione dello statuto del 1785 furono mantenute alcune norme cinquecentesche contro l'ingerenza dei forestieri e le loro inadempienze, suscitando da un lato le rimostranze dei deputati della città e dall'altro ricevendo l'approvazione di Venezia: tale situazione diede origine ad una lunga vertenza tra chi sostenne la libertà di lavoro e di commercio e chi accusò il ceto dirigente di commissionare i lavori a stranieri, costringendo i propri cittadini all'emigrazione.

Considerando sempre i comparti più attivi sul territorio, l'occupazione tessile ebbe larga diffusione sia in pianura che in montagna; fu una delle prime attività a mostrare i segni di un corporativismo troppo rigido e che venne coinvolta nella trasformazione produttiva tardo seicentesca, con il passaggio da un'organizzazione artigiana, finalizzata a soddisfare i bisogni primari locali e che realizzava il proprio lavoro nella bottega o comunque nell'abitazione dell'artigiano, proprietario degli attrezzi, a quella che venne definita «industria rurale a domicilio», la quale prevedeval'intervento del mercante imprenditore, nodo amministrativo e commerciale, che forniva gli attrezzi da lavoro e il materiale grezzo all'artigiano e vendeva il prodotto finito, spostando la fase centrale del lavoro (filatura, tessitura, follatura, cimatura e tintura) all'esterno della bottega. Fu questo un capitale che si sottrasse al controllo delle corporazioni cittadine, riversandosi nelle campagne, dove si approfittava di una manodopera a basso costo.

In particolare il settore laniero registrò un certo progresso: le sue fraglie ebbero un'importante diffusione in Friuli fino al secolo XVI, sorgendo a Cividale, a Sacile, a Pordenone e a Udine. In quest'ultima città, la corporazione si originò da un progetto politico, avviato dal Consiglio maggiore nel 1521, con l'approvazione dei capitoli dell'Arte della lana; rispetto alle consuete redazioni, nel loro statuto vennero ridotti i doveri inerenti alle pratiche devote e aumentati i capitoli che rafforzavano il controllo diretto della produzione, frammentato in una fitta serie di operazioni e specifiche regole di comportamento (riguardanti i forestieri, la confezione dei panni, l'obbligo dei tessitori di essere cittadini) che però non furono in grado di contrastare il lento declino della corporazione, innescato a fine secolo dalla libera circolazione dei panni forestieri.

Un'altra importante percentuale di occupati era costituita da sarti e calzolai, la cui concentrazione più alta si registrò in pianura, nel medio Friuli e nella media-bassa zona occidentale. Se si considerano i piccoli agglomerati abitativi, anche la montagna carnica vide una massiccia distribuzione di sarti fin dal Medioevo e le dinamiche che caratterizzarono la loro struttura costituiscono un punto di osservazione privilegiato per l'analisi dei legami esistenti tra la confraternita devozionale e la corporazione di mestiere; il loro primo statuto (1443), dedicato a S. Lucia, richiamava istanze devote e di mutua assistenza, ma non si riferiva alla professione, solo alla fine del secolo (1469) i nuovi capitoli espressero chiaramente il tipo di aggregazione scelta sulla base dell'attività lavorativa, prevedendo norme protezionistiche a tutela del proprio spazio mercantile e gli obblighi da rispettare per esercitare il controllo della concorrenza (sia quella interna fra i corporati sia quella esterna realizzata dai forestieri). Le successive redazioni statutarie (1615, 1660, 1706, 1738) manifestarono le tensioni esistenti per la presenza di lavoranti forestieri, che vennero distinti in “sudditi” ed “esteri”, per i quali si stabilirono precisi percorsi di apprendistato: i primi potevano avviare la propria bottega effettuando un tirocinio di due anni, con relativa prova e il pagamento di una tassa di 10 ducati oppure potevano accedere direttamente alla prova mediante il versamento di 15 ducati; per gli “esteri” lo stesso iter richiedeva il versamento di quote differenti: la prima soluzione costava 15 ducati e la seconda 20; simili procedure possono essere interpretate come il tentativo di inglobare nella rete corporativa anche i forestieri, data la loro ineludibile presenza sul territorio.

La questione dei 'mercanti foresti' si inasprì con l'inizio del Settecento, per il commercio delle pelli, la cui produzione locale faceva capo a Venezia (Giudecca) per l'approvvigionamento. Proprio nell'ambito della fraglia dei pellizai emergono particolari figure di imprenditori, impegnati nel commercio con la Serenissima, nell'appalto dei dazi e nell'esercizio della concia. Quando quest'ultima si costituì come fraglia autonoma, diventò un'interlocutrice significativa con il mercato anche in area asburgica, che contava diverse concerie a Trieste.

In Friuli anche i fornai e i panificatori (pistori, forneri, molinari) si associarono in specifiche corporazioni, distinguendosi tra loro da un punto di vista fiscale, dato che i pistori non furono abilitati alla confezione per la vendita, mentre i forneri potevano operare sulla base della committenza con i privati. Come per i tessitori anche questo settore vide una biforcazione tra la sede della manifattura e il luogo del commercio. Il coinvolgimento del mondo rurale non si manifestò subito in maniera netta: il legame tra città e campagna, tra produzione agricola e lavorazione artigiana non fu sempre visibile, cominciò a diventarlo dal punto di vista del controllo, per cui in campagna la preparazione era domestica, avveniva con l'uso di forni di famiglia o comunitari ossia appartenenti al signore locale, dedito a gestire più attività produttive. In ambito urbano, come a Udine e a Cividale, l'organizzazione era sottoposta al controllo dell'autorità cittadina, che vietava la panificazione privata in favore di una panetteria pubblica, prevedendo dazi e calmieri specifici per le fasi della produzione. Inoltre, nei centri urbani sorsero i magazzini pubblici (Fondachi) per l'acquisto delle granaglie di panificazione, obbligando a rifornirsi di determinate quantità a un prezzo calmierato. Risale al 1564 il codice di disciplina predisposto per i pistori da parte dei deputati della città di Udine, che si arrogarono anche la loro elezione. I capitoli che vennero redatti in tale occasione sancirono la nascita della corporazione e ne regolamentarono l'operato fino al 1570, quando la fraglia venne dedicata devozionalmente al Santo Spirito, accomunando in un'unica arte i pistori, i fornai, gli scaletteri, i farinai e i molinari.

Si assiste ad una specializzazione delle attività, per cui si aggregano tra loro non lavoratori di settore ma di particolari attività, come i casolini o mercanti di grassa (piccoli droghieri venditori di formaggi e lardi) che nel 1638 si raccolsero in fraglia sotto l'egida di S. Giovanni Battista. Consorzi e simili forme di aggregazione sorsero anche dove la presenza di un mulino da macina rivestì una centralità economica ravvisabile nello statuto organizzativo, caratterizzato dalla frequenza dei capitoli dedicati alla sua gestione (così a Dignano e a Lestans). Mulini e fornaci furono i luoghi che favorirono la nascita di aggregazioni di categoria e che innescarono dinamiche commerciali differenziate, per cui in alcuni territori i lavoratori furono costretti ad un'esistenza itinerante (e non solo nell'ambito della Patria), altre volte l'aggregazione corporativa e l'adozione di uno statuto portò alla fissazione dei prezzi e al divieto di vendita ai forestieri e, ancora, la presenza di una famiglia nobile su territorio determinò il monopolio sull'attività locale, destinata a svolgersi entro un'area coincidente al luogo di produzione.

È significativo che nel primo ventennio del Settecento le nuove redazioni degli statuti presentino caratteristiche comuni, ampliando i capitoli dedicati all'iscrizione obbligatoria per l'esercizio del commercio in città, all'obbligo di sottoporsi alla prova d'abilità e al pagamento di una tassa differenziata per i forestieri. Nei territori di dominio veneziano, i deputati imposero diverse correzioni a tali capitoli, in nome della libertà delle arti e nel 1719, il Senato giunse perfino a optare per un'apertura della produzione, rimuovendo le norme che complicavano l'accesso ai corpi di mestiere, come un lungo apprendistato, la prova d'abilità, la tassa d'iscrizione e il divieto di partecipazione ai forestieri. La posizione assunta dall'autorità fu sempre diffidente, per le conseguenze sociali che tali aggregazioni potevano innescare e istanze di natura politica portarono talvolta a negare l'assenso agli statuti riformati. Il processo di liberalizzazione e di scioglimento delle arti fu comunque raggiunto molto lentamente nel secolo successivo.

 

 

 

 

 

 

 


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