Giurisdizioni feudali, capitanati, podesterie, gastaldie nel Friuli veneziano

Età moderna



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di Michela Giorgiutti

Quando la Patria del Friuli entrò a far parte dei domini di Terraferma della Repubblica di Venezia, dal punto di vista amministrativo e socio-politico si presentava come un territorio sospeso tra due assetti organizzativi, l'uno di tipo feudale e l'altro comunale, i quali coesistevano senza trasformarsi o evolvere e senza che una dimensione prevalesse sull'altra. Il 19 luglio 1420 l'ultimo capitano aquileiese, Tommaso Piacentini, lasciò l'esercizio del potere temporale al magistrato veneziano Roberto Morosini, primo luogotenente generale della Patria del Friuli (inviato per un anno – poi la carica divenne per 16 mesi – a rappresentare la Signoria), che riconobbe le particolari circostanze e le modalità attraverso cui si esprimevano le autorità esistenti, numerose e frammentate, che si erano sottomesse alla Serenissima. Infatti, il magistrato si trovò un assetto istituzionale caratterizzato da una forte dispersione dei poteri giurisdizionali, dai diritti patriarcali e dai particolarismi originati dai signori feudali. La caratteristica principale che distingueva il Friuli dagli altri domini veneziani era proprio la diversificazione delle autorità che agivano sul territorio: accanto alla nobiltà castellana, che si distribuiva in tutta la Patria, coesistevano isole nelle quali esercitava direttamente la giurisdizione il patriarca o, indirettamente, attraverso i suoi vassalli; inoltre, diversi territori erano sottoposti all'arciduca, distribuiti in maniera disomogenea lungo la fascia sinistra del fiume Tagliamento e verso la pianura sudorientale. La frammentazione delle terre veneziane registrava una forte diversità anche nella consistenza degli abitati: agglomerati urbani, comunità di villaggio, territori definiti separati dalla Patria andavano a comporre una pleiade di privilegi che venivano sovente difesi dai detentori in maniera ostinata e violenta. Una delle prime operazioni che intrapresero i magistrati fu il monitoraggio della qualificazione territoriale.

Secondo le relazioni dei rettori veneti che si succedettero nell'amministrazione, il Friuli cinquecentesco si estendeva per circa 6.000 km2 e conteneva, secondo un'ovvia approssimazione, una popolazione stimata tra le 190.000 e le 225.000 unità, comprese le parti veneta e asburgica; in tale ridotta estensione si individuavano 816 ville (secondo la relazione di Francesco Michiel del 1553) dipendenti da autorità diverse e spesso in conflitto tra loro per la difesa dei propri diritti e privilegi. Con Venezia, il quadro politico-amministrativo della Patria del Friuli vide la comprenza di più entità: di comunità, rette da un podestà, da un capitano o da un gastaldo, assistiti dal consiglio dei cittadini; di giurisdizioni castellane, di cui qualcuna era affidata ad un capitano; di giurisdizioni ecclesiastiche, le cui amministrazioni erano seguite da un gastaldo; di giurisdizioni dominicali che furono inizialmente una cinquantina, sottoposte al diretto governo di Venezia e senza rappresentanza in Parlamento; di comunità rurali, rette da un decano e da un meriga; di ville comuni, soggette direttamente al luogotenente, le quali subirono una forte riduzione nel numero a causa del processo di infeudazione che la Serenissima adottò a partire dal Seicento, a favore di patrizi e borghesi, per ottenere introiti finanziari. Altre importanti giurisdizioni erano quelle tenute dalla potente famiglia Savorgnan, alcune delle quali erano affidate a un capitano, altre a un gastaldo. Esistevano poi i corpi separati della Patria retti da un provveditore, individuati in Palmanova (dal 1593), Cividale (dal 1553), Marano (dal 1543) e Pordenone, retta dal 1508 al 1537 da un capitano cesareo e, in seguito alla presa veneziana, da un provveditore-capitano.

Numerosi furono gli enclavi imperiali in territorio friulano, alcuni dei quali registrarono diversi passaggi d'autorità, come Gradisca, che dal 1420 al 1511 venne retta da un capitano veneto e poi diventò possesso degli imperiali. Condizioni particolari caratterizzavano Mossa, che dipendeva dall'austriaca Gradisca ed era rappresentata nel Parlamento da un avvocato fiscale; Aquileia, giurisdizione del patriarca ma di possesso imperiale; S. Daniele e S. Vito erano giurisdizioni patriarcali. In altre comunità della Patria fu nominato un podestà-capitano e così avvenne per Sacile, Caneva, Monfalcone, Portogruaro e Chiusa. Il Cadore, retto da un capitano, venne posto alle dipendenze del luogotenente di Udine, sia per risolvere le questioni militari che per quelle giudiziarie. Con il tempo, alcune comunità passarono alla diretta dipendenza di Venezia e vennero rette da un proprio magistrato (come Pordenone e Cividale) e, alla fine del Cinquecento, 62 su 79 terre e castelli signorili furono sottoposti all'autorità del magistrato veneziano di Udine. Una ventina di ville si mantennero nella giurisdizione del Patriarcato d'Aquileia, le quali vennero costituite in gastaldie, circoscrizioni governate dai gastaldi, responsabili in primis della gestione economica del territorio ad essi sottoposto, la cui autorità andò crescendo nel tempo fino a comprendere l'esattoria fiscale e l'esercizio della giustizia criminale. Erano sedi di gastaldia la Carnia, Tricesimo, San Daniele, Fagagna, Cividale, Antro, Tolmino, Manzano, Nebola, Mossa, Aiello, Sedegliano, Carisacco e Palazzolo, San Vito al Tagliamento, Meduna, San Stino di Livenza, Maniago, Torre di Pordenone, Caneva di Sacile. Le funzioni del gastaldo, ufficio che veniva spesso concesso in appalto a feudali del patriarca, erano svolte anche dai capitani del Cadore, di Gemona, di Venzone, di Monfalcone, di Portogruaro, di Sacile e dai podestà di Marano e Aquileia. Durante l'età moderna, il patriarcato di Aquileia fu coinvolto in una delle più delicate questioni signorili feudali, per la quale le decisioni di Venezia vennero condizionate dalle iniziative asburgiche, dirette a limitare la giurisdizione spirituale del patriarca, ma soprattutto i diritti veneziani di giuspatronato.

Le restanti ville disseminate nella Patria erano dipendenti dal luogotenente e venivano rappresentate nel Parlamento o nell'istituto della Contadinanza (a partire dal 1518). Le comunità più consistenti e con un ruolo di rilievo, riconosciuto dalla Serenissima negli assetti economici e politici, furono dotate di rettori, patrizi veneziani, dipendenti dal luogotenente di Udine, città che divenne il capoluogo della Patria, sede della rappresentanza territoriale e centro urbano in cui i ceti dirigenti locali costituirono piccole oligarchie di potere. I domini signorili si distribuivano su tutto il territorio (con l'esclusione delle ville comuni sottoposte direttamente al luogotenente) e vantavano prerogative sull'amministrazione della giustizia civile e penale, sul controllo delle risorse naturali della terra e sui diritti fiscali. Pochi provvedimenti significativi vennero presi per accrescere il controllo statale sui feudi: nel 1631 fu ordinato ai giusdicenti di non nominare vicari o capitani che non fossero sudditi veneti e, sei anni dopo, venne sottoposta ad esame la legittimità della giurisdizione criminale d'appello del vescovo di Concordia; si aprì così una questione sui diritti consuetudinari, messi in discussione anche a causa delle pressioni e delle violenze denunciate dai sudditi, che spesso non potevano ricorrere al luogotenente per protestare contro sentenze emanate dai propri giurisdicenti.

La morfologia del territorio costituì un altro fattore di differenziazione dell'esercizio dei poteri, per esempio le zone montuose mantennero un'ampia autonomia, mentre altre località godettero di particolari attribuzioni istituzionali e amministrative per la loro posizione periferica e di frontiera. Da un lato le innumerevoli circoscrizioni signorili, laiche ed ecclesiastiche riconosciute da Venezia e dall'altro i feudi nuovi, concessi a partire dalla seconda metà del Seicento al nuovo ceto di intraprendenti investitori e speculatori, rappresentarono per tutta l'età moderna uno dei tratti dominanti della società friulana. La Serenissima adottò una politica di conservazione degli assetti costituzionali acquisiti prima del suo dominio e fu orientata a trarre vantaggio dal frazionamento dei poteri e dalla dispersione dei diritti giurisdizionali sul territorio friulano. Pertanto, essa riconobbe le istituzioni feudali provinciali e confermò i poteri signorili e le prerogative che le comunità, i comuni e i villaggi avevano sottoscritto nei patti di dedizione a Venezia. Questa scelta contribuì a rendere il sistema politico, amministrativo e giudiziario sempre più complesso e di fragile gestione, poiché frequenti furono i contrasti tra casate nobiliari, sia quelle inurbate sia quelle residenti nei castelli e nei distretti signorili che, partecipando attivamente alla vita politica, divennero per Venezia oggetto di continui tentativi per limitare scontri con la classe dirigente locale. Non secondaria conseguenza della politica di Venezia, che scelse di mantenere gli equilibri consolidatisi negli anni successivi alla conquista, fu quella di contribuire a determinare una certa staticità negli ordinamenti e nella struttura sociale del territorio friulano, caratteristica che andò ad incidere sull'amministrazione della giustizia, sull'imposizione dei tributi, sull'organizzazione militare e l'esercizio dei poteri civili e giurisdizionali.


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