Chiesa, clero secolare e comunità attraverso le visite pastorali

Età moderna



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di Michela Giorgiutti

L'avvio della Riforma cattolica, intrapresa al termine del Concilio di Trento, si collocò in Friuli durante il patriarcato di Giovanni Grimani (1545-1593) e venne attuata attraverso due principali canali di monitoraggio e intervento: la visita pastorale, che permise un'ispezione diretta della realtà spirituale locale, adottando opportuni rimedi per le situazioni devianti e il sinodo, un appuntamento di verifica e di pianificazione da parte del clero. Entrambi questi strumenti, articolati come organizzazioni di controllo già dal IX secolo, assunsero un rilievo sostanziale per l'applicazione del codice tridentino alle pratiche locali, divenendo risorse di mediazione tra gli orientamenti della Chiesa e la vita religiosa delle comunità.

Nel Friuli d'età moderna, la visita pastorale, già esercitata sui territori del patriarcato, venne riorganizzata a seguito della pubblicazione del Decreum de reformatione di Pio IV, che nel 1562 determinò gli spazi d'intervento del vescovo per la cura delle anime. Un rinnovamento strutturale venne compiuto una trentina di anni dopo, con il Pontificale romanum di Clemente VIII del 1595, che definì la visita un dovere personale del vescovo da effettuarsi ogni due anni e stabilì le fasi procedurali, dall'accoglienza del visitatore ai riti d'ingresso da effettuarsi, alle modalità di convocazione del parroco e dei rappresentanti laici della comunità. Alla sessione XXIV, cap. 3, si esplicitò l'obiettivo della visita pastorale, che si propose come una vera e propria alfabetizzazione religiosa e morale, strumento di riforma ecclesiastica del clero e dei fedeli. Un'attenzione particolare ricevette la riformulazione dello spazio liturgico, con lo spostamento del pulpito in corrispondenza dell'altare, per valorizzare il luogo della consacrazione e della conservazione del SS. Sacramento, centro unico e simbolico dell'edificio cultuale.

In generale, la visita si svolgeva secondo un ordine e un rituale prestabiliti: il visitatore riceveva dal pontefice o dal patriarca il decreto di nomina e si recava nella zona interessata, solitamente la sede della pieve o chiesa matrice, restando uno o più giorni per raggiungere le filiali. Compito del visitatore era l'analisi di due situazioni, l'una relativa alla vita prettamente devozionale, alla preparazione teologica del clero, alla condotta morale del parroco e dei fedeli; l'altra diretta alla verifica della corretta amministrazione del patrimonio della chiesa e delle associazioni laiche devozionali presenti in parrocchia, compresi ospedali e luoghi pii. Nel corso del tempo la prassi seguita si modificò, semplificando la sequenza dei rituali, ma rimase stabile l'intervento su queste due dimensioni.

La visita principiava con la convocazione della comunità intera alla messa solenne e all'eventuale processione, in cui venivano dichiarati gli scopi e le finalità dell'evento. Seguiva l'esame della gestione dell'edificio cultuale, dalla sacrestia agli altari, agli altri luoghi di culto (cappelle, oratori, cimitero), durante il quale il visitatore era accompagnato da un cancelliere annotante le carenze trovate, dal pievano e dai camerari della chiesa e delle confraternite. Grazie ad un ufficiale di Curia che trasmetteva gli ordini di comparizione, avveniva il colloquio con gli amministratori, i parroci, i laici in qualità di testimoni dell'attività parrocchiale e in grado di presentare documenti, libri di conto e inventari. La consegna delle disposizioni del visitatore al pievano, per la miglioria della vita cristiana, chiudeval'intervento.

La prima visita apostolica post conciliare in Friuli risale all'11 febbraio 1570, affidata dal pontefice Pio V al protonotaro apostolico Bartolomeo di Porcia, già abate di Moggio. La situazione da lui rilevata nelle comunità cristiane del patriarcato mise in luce la distanza esistente tra i dettami conciliari e la realtà locale, soprattutto nella conservazione dell'edificio cultuale e nell'amministrazione delle finanze di chiese e associazioni devozionali o assistenziali. Gli interventi migliorativi disposti da Bartolomeo di Porcia riguardarono la modifica di consuetudini e di tradizioni cultuali considerate non idonee e una diversa operatività attribuita al laicato, a cui competevano le mansioni inquadrate dalla cameraria (la gestione della camera, ossia del patrimonio materiale). I provvedimenti che egli prese furono percepiti come un'ingerenza da parte delle camerarie, che difendevano la loro autonomia amministrativa.

Dopo Trento, non era tollerabile che le consuetudini locali avessero predominanza sui dettami dell'autorità ecclesiastica eppure, dalle relazioni delle visite alla fine del Cinquecento, emergeva la difficoltà dei visitatori a rendere operativo il codice tridentino. La resistenza ad un controllo centrale emerse anche dalle relazioni di Cesare de Nores, vescovo di Parenzo, nominato come visitatore apostolico dal papa Gregorio XIII. La sua visita, effettuata nella diocesi di Aquileia tra il 1584 e il 1585, si concentrò sull'esame delle pratiche devozionali e sul controllo della documentazione amministrativa, suscitando non poche resistenze locali per aver ordinato la compilazione di inventari dei beni (stabili e mobili) e dei diritti esercitati. Oggetto di specifiche domande rivolte ai camerari delle chiese (detti anche massari o sindici), che erano tenuti a rendere conto al parroco delle spese annuali, fu la verifica dello stato del patrimonio economico ecclesiastico in tutte le sue manifestazioni, dall'arredamento degli edifici all'amministrazione dei legati testamentari, all'esazione delle decime e degli affitti. Puntuale fu anche l'interrogazione sullo stesso tema rivolto alle associazioni devozionali laiche (le confraternite), che dovevano rendere ragione dei loro introiti, della distribuzione dei beni, della loro quantificazione, accompagnando i registri contabili con il proprio statuto, legittimante l'autonomia gestionale.

Per tutto il Seicento, dalla visita emergono importanti informazioni sia sull'aspetto formale della pratica religiosa, come lo stato di conservazione degli edifici cultuali, degli altari, delle suppellettili liturgiche, delle reliquie sia su quello sostanziale, inerente alla preparazione dei preti e al loro dovere di formazione e educazione della comunità, attraverso l'insegnamento della dottrina cristiana. Secondo il primo aspetto, la visita evidenziò l'esigenza di monitorare una popolazione sempre più sparsa sul territorio: se prima la pieve o la chiesa matrice era il centro nevralgico della visita, in seguito l'esigenza del controllo spinse a visitare ogni chiesa filiale, ogni cappella, ogni edificio cultuale. Questo accadde in un momento in cui la realtà organizzativa della pieve diminuì lentamente il suo ruolo di perno delle componenti territoriali e si affermarono spinte centrifughe di nuovi paesi, con proprie caratteristiche e richieste di autonomia, espressa mediante l'edificazione di nuovi luoghi di culto. La visita diede l'occasione di distinguere lo spazio sacro da quello profano anche mediante la consacrazione di chiese, altari, cimiteri, accordando indulgenze e rilasciando autenticazioni di reliquie. Dal punto di vista sostanziale, l'esame del clero fu l'aspetto più indagato e la parte centrale della visita venne riservata alla verifica della preparazione sacerdotale e culturale del clero, relativamente all'amministrazione dei sacramenti e al culto divino. Le indicazioni del visitatore fornirono un modello pastorale, indicando fra i compiti fondamentali del sacerdote la spiegazione del Vangelo al popolo, l'omelia in volgare e l'insegnamento ai bambini. Venne elaborato un vero e proprio questionario per monitorare la condotta cristiana dei parroci e dei laici, per saggiare la preparazione culturale del clero e la coscienza dei propri doveri pastorali e morali.

Se questo intervento della Chiesa nella comunità locale si manifestò in maniera più consistente nel Seicento, si verificarono fasi più statiche e di routine verso la prima metà del Settecento, diminuiendo nella seconda metà del secolo. Nel patriarcato di Aquileia, i patriarchi che si succedettero, da Giovanni Grimani (1545-1593) a Francesco Barbaro (1593-1616), a Giovanni Dolfin (1657-1699), Dionisio Dolfin (1699-1734) e Daniele Dolfin (1734-1762), non attuarono solo un intervento di monitoraggio sui fedeli ma anche un'azione di coordinamento con le autorità civili aventi la giurisdizione sul territorio. La realizzazione della visita pastorale implicava, infatti, la mobilitazione di più soggetti sociali ed era condizionata dalle relazioni esistenti con i poteri locali, nel riconoscimento delle competenze tra autorità formali. Fin dalla prima visita apostolica post conciliare nei terriori del patriarcato aquileiese (1570) si pose il problema delle pertinenze, in quanto al patriarcato di Aquileia appartenevano territori sottoposti parte al governo veneto e parte a quello asburgico. La linea immaginaria che scorre dal Monte Canin al Monte Mia, dal Monte Colovrat e lungo il fiume Judrio, distingueva dopo Worms (1521) un confine politico che condizionò gli interventi di giurisdizione spirituale, tanto d'iniziativa patriarcale quanto imperiale, fino a portare, nel 1751, alla fine dell'unità patriarcale e alla formazione di due arcivescovadi (Udine e a Gorizia). L'apprensione con cui il patriarcato viveva la sua estesa conformazione si rivela nei verbali delle visite post tridentine. La giurisdizione temporale della Chiesa di Aquileia era terminata nel 1445, con la transazione a Venezia da parte del patriarca Ludovico Trevisan (1439-1465), ma il patriarcato conservava e difendeva la sua giurisdizione spirituale su tutto il territorio, organizzando le azioni pastorali. Il controllo politico sui territori patriarcali, esercitato da un lato da Venezia e dall'altro da Graz (poi da Vienna), rese Aquileia (occupata dagli Asburgo nel 1543) un fattore ambivalente nella politica papale, che valutava come una potenziale minaccia la nomina di un patriarca austriaco. Per questo motivo, nel tentativo di risolvere la controversia politico-territoriale tra la casa d'Austria e la Repubblica di Venezia, nel 1568 fu prospettata una suddivisione del territorio patriarcale; due anni dopo, mentre il vescovo di Trieste, Andrea Respicio, studiava il problema con l'assistenza dei nunzi apostolici di Graz (Germanico Malaspina e Giovanni Andrea Callegari), si svolgeva la prima visita pastorale ad Aquileia, nei territori della Contea di Gorizia e nei capitanati di Tolmino e Gradisca, sotto la supervisione dell'arciduca Carlo II d'Asburgo, che volle limitare la visita ai soli ecclesiastici. Quattro anni dopo, nel 1574 (21 dicembre) venne istituito nella Contea di Gorizia un arcidiaconato (poi suddiviso tra Gorizia, Tolmino e Gradisca) che provocò una distinzione più marcata con la zona patriarcale facente parte dei domini asburgici. Tale questione giocò un ruolo importante anche nella determinazione degli interventi pastorali, in quanto seppur dipendenti dal patriarca d'Aquileia, i territori oltre il confine politico vennero visitati da delegati episcopali della zona e le volontà che provenivano dal patriarca non furono sempre accolte, perché considerate ingerenze illegittime, come si verificò per le disposizioni fissate nel sinodo diocesano convocato a Udine nel 1584 e voluto dal vescovo di Kotor (Cattaro, possedimento montenegrino di Venezia), Paolo Bisanti, al termine delle sue visite pastorali dal 1580 al 1583. Dato che le località visitate facevano parte del dominio veneziano, le direttive espresse nel sinodo trovarono resistenza nei territori imperiali, tanto che l'arciduca di Gorizia non concesse la pubblicazione degli atti nei suoi territori e le visite pastorali da parte di un prelato veneziano diventavano atti giurisdizionali che la Casa d'Austria mal sopportava.

Nel territorio goriziano fu l'arciduca a provvedere alla riforma ecclesiastica, senza coinvolgere il patriarca: nel 1586 fu affidato il compito di visitare le chiese in territorio asburgico al vescovo di Bertinoro, Giovanni Andrea Callegari, nunzio papale a Graz, e in seguito le visite vennero affidate all'arcidiacono di Gorizia Andrea Nepokaj e a Giovanni Maria Pannizolo di Gradisca. L'unico patriarca che riuscì a visitare Gorizia fu Francesco Barbaro nel 1593. Dalla lettura dei verbali delle visite in entrambe le zone del patriarcato emerge una comune attenzione all'analisi della preparazione religiosa del parroco e della gestione del patrimonio spirituale e materiale della chiesa locale.

Un elemento che caratterizzò le zone di confine fu l'attenzione dei visitatori alla diffusione di posizioni eterodosse, per cui si moltipicarono le indagini sulla presenza di devozioni e tradizioni popolari a rischio di eresia. Le misure adottate contro le correnti ereticali provenienti dalle aree tedesche furono variamente attuate sul territorio: mentre nella parte veneta del patriarcato fu attivamente impegnata l'Inquisizione, che operò attraverso i vicari patriarcali dal 1558 fino al 1786, registrando un periodo di massima attività tra il 1647 e il 1656, nella parte imperiale la vigilanza fu esercitata da Roma ma in maniera assai più blanda, dato che fu quasi inesistente l'attività dei tribunali del Sant'Uffizio e i decreti conciliari non vennero pubblicati interamente. Tale situazione contribuì a creare distanze e differenze tra le due parti del patriarcato, soprattutto nell'attuazione della riforma cattolica, che in territorio imperiale rimase sotto il patrocinio del sovrano e della nunziatura di Graz (istituita nel 1580).


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