Gli sloveni in Italia dalla fine della Seconda guerra mondiale agli anni Sessanta

Novecento



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di Stefan Čok

 

La fine del secondo conflitto mondiale portò all’apice le tensioni legate alla delimitazione confinaria fra la nuova Italia e la nuova Jugoslavia sorte dal conflitto. Il tema, che già del resto aveva condizionato i rapporti fra le due Resistenze nel periodo finale della guerra, si intrecciò alla montante contrapposizione politica e ideologica fra l’Est in cui l’Unione Sovietica stava imponendo la propria supremazia e l’ovest a guida statunitense. I grandi temi della geopolitica, dello scontro fra sistemi, delle contrapposizioni nazionali andarono a ricadere anche sulla vita quotidiana delle popolazioni residenti nelle aree contese, compresi quelli che oggi definiamo con il termine di sloveni in Italia. Questi ultimi sono ancora oggi insediati sui territori delle tre ex province di Udine, Gorizia e Trieste; questa distinzione amministrativa nasconde ovvero porta con sé anche tre diversi tracciati di sviluppo della storia di queste popolazioni.

Nel territorio della provincia di Udine, in particolare nelle valli del Natisone, i rapporti con le nuove autorità italiane furono da subito (ma lo erano del resto stati già nell’Italia liberale prefascista) molto difficoltosi. Gli sloveni faticarono a essere riconosciuti dallo Stato: a volte veniva loro negata l’esistenza, a volte, nel nome di una loro presunta specificità, veniva loro negata la possibilità di considerarsi sloveni. In un territorio che come spesso succede nelle aree di montagna scontava situazioni di sottosviluppo economico l’impatto di una guerra fredda che fu in questa fascia del confine molto più forte e duraturo che nelle aree più meridionali determinò, nel corso dei decenni, una forte emigrazione (e del resto non a caso ancora oggi fra gli eventi più significativi della comunità rientra proprio la Giornata dell’emigrante – Dan emigranta).

Nel territorio della provincia di Gorizia, all’altissima tensione della primavera 1945 seguì l’attesa per le decisioni della conferenza per la pace. Un’attesa densa di mobilitazioni per dimostrare la correttezza dell’una o dell’altra soluzione statale. In tale contesto gli sloveni si reimpossessarono di alcuni luoghi altamente simbolici, in primis il Trgovski dom (casa del commercio), strappato loro dai fascisti negli anni Venti. L’attività culturale, economica, sociale riprese nel contesto politico uscito dalla Lotta di liberazione. Contemporaneamente riaprirono, sotto l’egida delle autorità anglo-americane, le scuole. All’incertezza seguì lo shock determinato dalle decisioni del trattato di pace di Parigi: Gorizia tornò all’Italia e venne contestualmente separata dal suo entroterra. Il momento dell’entrata in vigore del trattato, il 15 settembre 1947, simboleggiò il momento in cui città e territorio vennero bruscamente separati, ma fu anche al contempo il momento in cui le pulsioni antislovene trovarono nuovamente sfogo. Il Trgovski dom venne così nuovamente perso e solo in anni recentissimi torna a essere pienamente fruibile dalla comunità. Gli sloveni di Gorizia, che contestualmente a quelli dell’udinese si trovarono da subito nella necessità di inserirsi nel contesto della nuova Italia del dopoguerra (e infatti uno sloveno venne anche candidato, senza successo, alle elezioni politiche del 1948), furono profondamente segnati dallo scontro ideologico: a una parte maggioritaria della comunità, che sull’onda della lotta di liberazione guidata dai comunisti si schierò con le sinistre, stava di fronte una parte più piccola, di matrice cattolico-liberale.

Dinamiche simili, ma al contempo molto più complesse, segnarono l’evoluzione degli Sloveni dell’area triestina. Anche qui, similmente a quanto avviene a Gorizia, il periodo dell’immediato dopoguerra fu contraddistinto dalle grandi mobilitazioni per il nuovo confine, dallo scontro fra una componente di sinistra, maggioritaria, e una componente cattolico-liberale, in cui forte era l’influsso di personalità che avevano lasciato la Jugoslavia a seguito della presa del potere da parte dei comunisti. Gli anni dell’immediato dopoguerra segnarono la ripresa delle scuole, ancora una volta consentita dalle autorità anglo-americane, e la comparsa di imponenti organizzazioni di massa, improntate alla fraternità italo-slava. Contemporaneamente si sviluppò una rete di realtà associative in campo culturale, economico, politico, sociale; forte fu inoltre l’esigenza di commemorare i propri caduti, con la posa dei numerosi cippi alla lotta partigiana che ancora oggi caratterizzano l’area.

Il trattato di pace, con l’instaurazione del Territorio Libero di Trieste, rappresentò l’introduzione in una realtà completamente diversa, in cui peraltro restavano complessi i rapporti con le autorità anglo-americane: in un contesto internazionale in cui la Jugoslavia di Tito era allineata a Mosca, l’associazionismo sloveno continuava a esser osservato con freddo sospetto. Lo scontro del Cominform fra Stalin e Tito colpì come un terremoto: nel giro di pochi giorni la maggioranza degli Sloveni si vide costretta a scegliere fra i due poli di un binomio considerato sino a quel momento inscindibile. La maggioranza optò per Stalin, come mostrarono i risultati elettorali; una parte molto significativa (e soprattutto alcune delle istituzioni più importanti) optò per Tito; per tutti la rottura passò attraverso conflitti, lacerazioni, traumi che lasciarono profondo il segno e che restarono nel tempo e incisero profondamente in una comunità che dopo venti anni di violenta assimilazione del fascismo stava appena iniziando a ricostruire.

A metà degli anni Cinquanta il ritorno dell’Italia richiese un nuovo adattamento; nel nuovo contesto in cui la questione di Trieste era, de facto se non de iure, definitivamente risolta, gli sforzi degli sloveni (anche aldilà dei diversi schieramenti ideologici, pur con tutte le difficoltà del caso) furono rivolti a ottenere dall’Italia ciò che trattato di pace prima e memorandum di Londra poi avevano promesso. Già nel periodo del TlT infatti gli Sloveni, nell’impossibilità di poter riavere il Narodni dom distrutto dai fascisti nel 1920, avevano avviato un’ampia mobilitazione al fine di costruire un nuovo centro culturale (il Kulturni dom appunto ovvero Casa della cultura). Tali richieste poterono concretizzarsi solo a seguito del Memorandum di Londra, benché in un’area molto più periferica rispetto al centralissimo Narodni dom. Contestualmente gli sforzi si orientavano verso l’ottenimento di due obiettivi ben definiti: il rafforzamento di una comunità che potesse essere quasi completamente autosufficiente, anche in campo economico, e la lotta per quegli elementi imprescindibili che solo una legislazione specifica poteva fornire, in primis in campo scolastico.

L’inizio degli anni Sessanta, contestualmente al miglioramento delle relazioni fra Italia e Jugoslavia, portò due novità significative anche per gli sloveni: la creazione della Regione Autonoma Friuli Venezia Giulia li vide per la prima volta tutti riuniti nella stessa cornice istituzionale. La cosa ebbe poche ricadute sull’immediato, essendo rimasta tutta la tematica della minoranza in capo allo stato, ma fece sentire le sue conseguenze in seguito, quando sempre più forti si fecero le richieste per una tutela globale, che considerasse cioè tutti gli sloveni in Italia come appartenenti alla stessa comunità.

Al contempo, nelle elezioni del 1963 per la prima volta un esponente della comunità, Marina-Marija Bernetič, entrò in Parlamento, nelle fila del PCI. La presenza di esponenti della comunità nel parlamento nazionale e nel consiglio regionale divenne da quel momento una delle caratteristiche costanti e presenti ancora oggi.

Ad ostacolare ogni possibilità di una vera normalizzazione il rifiuto, se non l’aperto odio, che la parte più nazionalista e anche apertamente neofascista della società italiana manifestava verso gli sloveni: ogni provvedimento che estendesse il campo di utilizzo della lingua o mirasse a migliorare in generale la situazione della comunità minoritaria diventava così, inevitabilmente, oggetto di scontro. Caso specifico e particolarmente complesso fu quello dei borghi del Carso, prevalentemente se non esclusivamente sloveni, accanto ai quali il governo italiano decise di insediare, in nuovi borghi creati all’uopo, gli esuli istriani. La convivenza a così stretta distanza consistette, nel migliore dei casi, in una fredda indifferenza; ma motivi di tensione e scontro non mancarono.

Che il processo di normalizzazione e pacificazione sarebbe stato una cosa lunga e complessa del resto lo si capiva spesso. L’ingresso del paese nella nuova stagione politica del centrosinistra apriva prospettive nuove anche a Trieste: la rottura del Cominform fece infatti sì che non pochi esponenti di primo piano del mondo sloveno, ricompostasi in qualche modo la rottura nel corso della seconda metà degli anni Cinquanta, avessero preferito il PSI a uno scomodo ritorno sotto il “tetto comune” del PCI ancora guidato dalla classe dirigente, in primis Vittorio Vidali, che nel 1948 aveva vigorosamente sostenuto l’Unione Sovietica. Avvenne così che nel 1965, al momento di costituire una giunta di centrosinistra al Comune di Trieste, i socialisti facessero proprio il nome di uno sloveno, già attivista antifascista, confinato e deportato nei campi fascisti, poi dirigente partigiano e direttore del “Primorski dnevnik”, ancora oggi quotidiano della comunità slovena in Italia: Dušan Hreščak. La nomina suscitò una violentissima opposizione da parte della destra, che non riuscì però a impedire la nomina di Hreščak come primo assessore comunale sloveno a Trieste.

 

Bibliografia essenziale

La comunità sommersa. Gli Sloveni in Italia, 2a ed., Ed. Stampa triestina, Trieste 1992

Kacin Wohinz M. e Pirjevec J., Storia degli sloveni in Italia, Marsilio, Venezia 1998

 


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