Fascismo di confine

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Video: Il rogo del Narodni dom

 di Anna Vinci
“Fascismo di confine” è la definizione simbolica che il nuovo movimento politico sceglie fin dal 1919 per sottolineare la sua specifica identità nell’ambito territoriale del Friuli e della Venezia Giulia. Di volta in volta essa è il vessillo agitato dalla propaganda della dittatura, è l’immagine smagliante da esibire in faccia agli altri “fascismi locali”, è l’arma di ricatto usata per sollecitare l’attenzione delle autorità centrali, ed è anche la maschera dietro cui nascondere vuoti e debolezze.

Il confine delimita le conquiste dell’esercito italiano, ma subito appare come “confine mobile”, vuoi per lo straripamento delle truppe (caso non isolato nell’Europa di quegli anni) al di là della linea d’armistizio, vuoi perché esso si configura come lo spalto da cui trattare e pretendere nuovi avanzamenti e nuove aree di penetrazione innanzitutto nel “ventre molle” dei Balcani. Il concetto di “confine” si lega saldamente a quello di “barriera” che divide due mondi e due civiltà (quella italiana e quella slava) poste ad un diverso livello di un’ipotetica scala gerarchica (superiorità italiana/inferiorità slava). L’intreccio dei due concetti, si ripropone, rovesciato, nei desideri e negli intenti dei gruppi dirigenti “slavi” (politici, intellettuali, professionisti) che puntano a riportare la linea di confine tratteggiata dal patto armistiziale di Villa Giusti al vecchio limite (tra Italia e Austria) del 1866, a vantaggio delle loro popolazioni.

Almeno in parte, tutto ciò costituiva l’eredità delle lacerazioni che, a cavallo del secolo, si erano aperte nel vecchio corpo dell’Impero austro – ungarico tra le molte nazionalità ivi presenti e, nel Litorale austriaco, tra comunità italiana e comunità non italiane (tedesche, ma soprattutto slovene e croate): l’età dei nazionalismi aveva inaugurato, all’interno di quella realtà plurietnica e multiculturale, scelte che tendevano a escludere ogni diversità in nome di un legame vincolante tra Stato e nazione, a scapito delle altre “nazioni”. A loro volta i popoli “giovani” e le nazioni “senza storia” salivano alla ribalta come forze sociali emergenti, costruendo forti identità comunitarie e rompendo i privilegi gerarchici nella gestione del potere economico e politico, riservata in precedenza a pochi gruppi sociali e nazionali. Non si possono negare le composite radici dei diversi nazionalismi che tuttavia s’indirizzano molto presto verso la malefica spirale dell’intolleranza e delle chiusure. La linea di frattura tra il prima e il dopo è data senz’altro dalla guerra mondiale e ciò per mille motivi.

Il conflitto mondiale agisce da detonatore dello scontro nazionale. Le scelte politiche del “divide ed impera” dell’Impero morente accelerano tale processo di frantumazione. Vanno tuttavia considerati anche altri fattori che la più recente storiografia ci ha insegnato a leggere.

Si tratta di fenomeni che riguardano non solo la violenza bruta delle armi, ma anche tutto il sommovimento che travolge le popolazioni delle zone di guerra e i centri urbani più importanti. Da Trieste, ad esempio, sono costretti ad andarsene già nel 1914 i cosiddetti “regnicoli”, e cioè gli italiani che erano affluiti nella grande città industriale e portuale di fine secolo, ma che non avevano la cittadinanza austriaca. Si contano circa 35.000 unità; ad essi si aggiungono i fuoriusciti “irredenti” e molto presto gli internati per motivi politici. A partire dal maggio del 1915 si verificano gli sfollamenti ordinati dall’esercito austriaco dalle zone di guerra e da gran parte dell’Istria (e in particolare da Pola, piazzaforte della marina militare asburgica), mentre l’incerta situazione di Gorizia induce gli abitanti alla profuganza. Circa 130.000 civili sono coinvolti in questo turbine che travolge il fronte interno. Le conseguenze non si faranno attendere, una volta terminato il conflitto.

 Il rancore e il disagio entrano in un vortice distruttivo, aggravato da mille altri accadimenti: 150.000 sono, ad esempio, gli ex prigionieri italiani usciti dai campi di concentramento austriaci e ammassati nel 1918 in alcune zone del Porto di Trieste in condizioni drammatiche.

Il Friuli che, per oltre due anni (1915 – 1917), costituisce la retrovia del fronte di guerra sull’Isonzo, vive una condizione durissima in un regime di vera e propria occupazione militare da parte dell’esercito italiano, spesso molto diffidente (e ostile) verso le popolazioni locali; né si può tralasciare l’oscillante occupazione territoriale (conquiste e riconquiste) degli eserciti in lotta. Spostamenti coatti delle genti (non sempre dettati da esigenze strettamente militari), internamenti e arresti indiscriminati precedono la rotta di Caporetto. In seguito a tale evento sono allora costrette a fuggire, cercando riparo in Italia, circa 135.000 persone. Il loro rientro innesca quella che è definita “una Caporetto interna”, fatta di sentimenti d’odio tra i rimasti e i profughi, che devono inoltre fare i conti con distruzioni e saccheggi.

Fame, malattie (l’epidemia della “spagnola” inizia già nel 1918), alta mortalità generale, distruzione di tante famiglie (migliaia le vedove e di orfani), indigenza, difficile avvio del risarcimento dei danni di guerra: tutto ciò segna uno stato di sofferenza assai diffuso, in quelle che sono terre d’occupazione fino alla firma del trattato di pace di S. Germain nel settembre 1919 e poi di quello di Rapallo, che nel novembre del 1920 chiude, a livello diplomatico, la questione del confine orientale tra Italia e Regno SHS. Le amministrazioni provvisorie coprono la fase di transizione fino alle elezioni: le prime avvengono in Friuli nel novembre del 1919. Va rilevata tuttavia la particolare condizione della Venezia Giulia (già Litorale Austriaco) che si protrae fino al maggio 1921, con i decreti di annessione della stessa: emerge la sostanziale incapacità e debolezza che gli organi periferici dell’Italia liberale (Governatorato militare e Commissariato generale civile) dimostrano in tale fase cruciale di passaggio. Lo sgretolarsi dello Stato liberale italiano ha spesso in queste terre l’evidenza di un ciclo ormai irreversibile, mentre l’idea di nuove guerre sempre possibili, nonostante i trattati di pace, è qui coltivata con furore e con paura.  Al riguardo, tuttavia, è necessaria una breve precisazione: alcune figure istituzionali di spicco come, ad esempio quella del Governatore militare, Petitti di Roreto, inserite in quel mondo complicato, mostrano una volontà di moderazione che sente di dover fare i conti proprio con la fitta presenza di sloveni e croati nelle province occupate. La moderazione si traduce tuttavia in debolezza, poiché le linee d’intervento a livello centrale sono spesso oscillanti e certamente non propense a lasciare spazio a quella che ormai è considerata ”una minoranza slava” nel nuovo contesto statuale. Vi è poi la grande forza d’urto del potere militare, che riconosce in Emanuele Filiberto di Savoia la sua guida. Sotto il suo comando, le armate dislocate nel territorio impongono segnali drastici che dimostrino il marchio del dominio patriottico. La protezione delle “minoranze” non è certo una priorità, nonostante le norme internazionali relative ai regimi di occupazione. Gli internamenti di personalità sospette di ostilità all’Italia (il clero soprattutto) sono numerosi. A tali provvedimenti (1918 – 1920) si aggiungano le immediate scelte d’italianizzazione, che sollecitano le fughe al di là della linea di armistizio di moltissimi sloveni e croati, tra cui maestri, intellettuali, politici e professionisti.

In questo terreno di coltura a Trieste è precoce, rispetto ad altre zone d’Italia, la nascita del fascio (3 aprile del 1919) ed è presto organizzata la sua violenta forza d’urto. Alle sue origini vi era un insieme disordinato di gruppi diversi, tra cui spiccavano le forze nazionaliste che avevano ereditato alcune delle formulazioni irredentiste e interventiste, spesso reinventate. Un grumo d’idee e di comportamenti lega insieme il movimento: la rabbia contro la “vittoria mutilata”, il grido di vendetta per i troppi morti e le troppe sofferenze provocate dalla guerra, trova in prima istanza in D’Annunzio e nei suoi proclami una guida. L’avventura fiumana infiamma gli animi, dal confine orientale al resto d’Italia, con la sua violenta irregolarità, col ripudio delle istituzioni liberali rappresentative e con le sue stesse promesse di un nuovo ordine sociale con tratti egalitari. L’elaborazione del lutto vi trova un appiglio, mentre s’inaugura la ritualità delle celebrazioni volte a evocare i caduti della Grande guerra nella perfetta circolarità tra il sacrificio degli eroi e la promessa di una “lotta incessante” per nuove conquiste. Un forte nesso di aggregazione tra i più giovani e i nuovi ribelli – segnatamente nella Venezia Giulia – viene costituito da alcuni precisi elementi: il nemico esterno, gli «slavi» del Regno SHS (“accozzaglia di Schiavi meridionali”); il nemico interno e cioè i socialisti e gli «slavi» presenti nell’area, contro cui la tradizione nazionalista si era ben allenata nel passato.

Nei quartieri operai urbani e nelle campagne si accende lo scontro sociale. Bisogna tuttavia prestare attenzione: nonostante i molti risultati raggiunti sul terreno delle conquiste sociali, la linea moderata del partito e del sindacato socialista sia nel Friuli occidentale (dove agiscono anche le leghe bianche di ispirazione cattolica) sia nella Venezia Giulia, è scavalcata dall’urto del nuovo mondo, dal radicalismo massimalista, dall’impazienza e dalla rabbia nate sull’onda delle conseguenze della guerra.

 “Essi non ragionano: sentono; non ostacolano: si astengono; non negano: ignorano”. Sono le parole di Aldo Oberdorfer, esponente di spicco del Partito socialista italiano di ispirazione austro – marxista nell’ex Litorale austriaco, riferite alla nuova dirigenza estremista del partito. È come un fiume in piena: guerriglia, tumulti, barricate, assalti alle sedi dei Comuni rappresentano le inusitate modalità di presenza sul territorio che i socialisti di nuova generazione esibiscono.

A Trieste, considerata la capitale del fascismo di tutta l’area proiettata verso il confine, nasce nel dicembre 1920 “il Popolo di Trieste”, il secondo quotidiano fascista d’Italia.

Poco prima «le squadre volontarie di difesa cittadina» (maggio del 1920), raggiungono una forte potenzialità d’azione, sotto la guida di Francesco Giunta, destinato ad una importante carriera durante il ventennio fascista, ma arrivato a Trieste nelle vesti di semplice avvocato e di ex ufficiale dell’esercito, all’interno di quegli uffici ITO (Uffici Informazioni Truppe Operanti) che ebbero un ruolo essenziale nell’orientare l’opinione delle autorità italiane circa la realtà sociale e politica dei territori appena occupati dopo il crollo dell’Impero austro ungarico.

Nel marasma del primo dopoguerra, Francesco Giunta, emulo di D’Annunzio, organizza le squadre per combattere quella che era definita «l’Antinazione» (sloveni, croati e socialisti). Si trattava di circa 156 soggetti molto attivi nella sola Trieste, tenendo conto che nel 1921 la Federazione fascista di Trieste contava 14.756 iscritti. Erano uomini – ragazzi, spesso sono legati tra loro da vincoli di parentela (cugini, fratelli, padri e figli), che spesso proiettavano la loro aggressività dalle famiglie disagiate verso l’esterno, ma che altrettanto spesso provenivano dall’esperienza fiumana e dalla disperata fuga dalle loro terre d’origine (dal Centro e dal Sud Italia) in cerca di fortuna e di lavoro. In poco tempo l’idea della “squadra” si consolida attraverso le sanguinose spedizioni verso l’Istria, ma anche verso il Friuli e il Goriziano, mentre le autorità politiche e militari rifuggivano da azioni decise di contrasto.

 Lo squadrismo punta a scompaginare le istituzioni del movimento operaio organizzato e delle leghe. Gli scioperi della più diversa origine e natura, economica, politica, di solidarietà internazionale, rappresentano un’occasione da non perdere; in alcuni casi è proprio il fermento operaio a richiamare sul territorio gli spezzoni della violenza squadrista prima ancora che sia presente una configurazione politica del fascio: così accade, ad esempio, nella cittadina di Monfalcone. Qui agisce uno dei capi più feroci del movimento, Aurelio Barbettani, ufficiale in congedo di origine toscana, reclutato da Giunta.

Nell’area al confine orientale, l’appoggio di larga parte dei ceti dirigenti (non sempre pronto e non sempre lineare) è di fondamentale importanza: per la zona operaia del Monfalconese, è sollecito il favore degli imprenditori Cosulich impegnati nella ricostruzione dei cantieri navali ed in particolare nella ricerca di un riconoscimento di piena cittadinanza nel nuovo Stato italiano, a cui dovevano dimostrare totale dedizione patriottica, chiedendo sostegni ed aiuti in concorrenza con altri settori dell’industria armatoriale italiana. Le squadre fasciste appaiono lo strumento più adatto per “governare” il mondo operaio in subbuglio.

In Friuli, e in particolare nella zona del pordenonese, è l’avvocato Piero Pisenti a coagulare l’interesse dei piccoli imprenditori, professionisti, proprietari terrieri, ex combattenti creando il Partito del lavoro, che ben presto si avvicina al movimento fascista e poi confluisce nel PNF. Il motto di tale nuova configurazione partitica è quello dell’ “illegalità legale”: un ossimoro ad hoc  per tempi di profondo rivolgimento.

La convergenza tra fascisti della prima ora e gruppi dirigenti economici o di antica tradizione liberale viene alla luce in maniera netta con la formazione dei Blocchi nazionali per le elezioni politiche del maggio 1921: una convergenza che va dal Friuli all’Istria, sebbene esistano differenze vistose tra un’area e l’altra, poiché nel collegio di Udine – Belluno e in quello di Gorizia, l’opposizione socialista, popolare e slovena mostrino ancora una forza notevole. Resta allora da ridimensionare, alla luce di queste alleanze, quello che era stato il collante principale di tutto il movimento.

Il 13 luglio 1920, l’incendio del Narodni Dom, il più moderno e importante centro culturale delle organizzazioni slave di Trieste, segna il trionfo dello squadrismo fascista e del capo carismatico Francesco Giunta, che in quell’azione ripone “l’essenza” del fascismo di confine, mentre le autorità civili e militari rimangono a guardare, senza opporre alcuna forma di contrasto. Quell’incendio acquista un valore simbolico, che semina il terrore per tutte le popolazioni slavofone alla frontiera. A Gorizia e per tutta l’Istria si susseguono azioni clamorose di assalti, incendi, persecuzioni.

Sullo sfondo si collocano le ripetute visite del Duce al confine orientale prima della firma del Trattato di Rapallo: esse annodano simbolicamente la sosta sui campi di battaglia e nei cimiteri di guerra, all’omaggio a Guglielmo Oberdan, per concludersi con proclami di riconquista e di odio “Di fronte a una razza come quella slava, inferiore e barbara […]” (Pola 1920). Stirpe, razza, giochi di morte, circolarità tra la morte degli eroi e la nascita/rinascita dei vendicatori. Prima della marcia su Roma, simbolicamente partono dal confine orientale sancito da Rapallo, i pellegrinaggi che accompagnano nel 1921 la salma del Milite Ignoto a partire dalla “Santa Gorizia”, passando per Aquileia e poi attraverso l’Italia fino all’Altare della Patria, a Roma; nel maggio 1924 avviene la traslazione della salma di Enrico Toti verso il cimitero del Verano. Mussolini, intanto, nel settembre del 1922, sceglie Udine, la capitale della Grande guerra, per un discorso molto ben congegnato in vista dell’assalto al potere.

Dopo la marcia su Roma dell’ottobre del 1922, s’impone nel giro di poco tempo (dopo il delitto Matteotti) una diversa gestione della violenza, sia in nome dell’alleanza con i vecchi ceti dirigenti politici ed economici sia per il pericolo insito nelle sgangherate espressioni ribellistiche della prima ora. Non per questo lo squadrismo fascista si estingue, rimanendo nelle pieghe dello Stato dittatoriale. Sempre pronto a ritornare in campo.

 

Bibliografia essenziale

Apih Elio, Italia, Fascismo e Antifascismo nella Venezia Giulia, 1918/1943, Laterza, Bari 1966.

Apollonio Almerigo, Dagli Asburgo a Mussolini, Venezia Giulia 1918 – 1922, Leg, Gorizia 2001.

Vinci Anna, Sentinelle della patria. Il fascismo al confine orientale 1918 – 1941, Laterza, Roma-Bari, 2011.

Visintin Angelo, L’Italia a Trieste. L’operato del Governo militare italiano nella Venezia Giulia, 1918-1919, Leg, Gorizia, 2001.

Wörsdörfer Rolf, Il confine orientale. Italia e Jugoslavia dal 1915 al 1955 Il Mulino, Bologna 2009.

 


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