I poteri popolari in Istria

Novecento



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di Orietta Moscarda

A partire dal maggio 1945 l’Istria e Fiume furono occupate dai partigiani di Tito e sperimentarono in quegli anni la creazione di un regime comunista, che innescò una serie di trasformazioni a livello politico, economico, sociale e nazionale. La resa dei conti che seguì nei territori alto adriatici condensò tutti questi aspetti, lasciando emergere non soltanto quelle forme di violenza rivoluzionaria che si registrarono in altri paesi dell’Europa centro-orientale, ma anche elementi di rivalsa nazionale e sociale a danno di quella componente storica – gli italiani – che fino allora aveva costituito il «popolo signore» e che,  tramite il suo stato nazionale di riferimento, aveva occupato e smembrato gli altri territori jugoslavi.

La presa del potere, perciò, si consumò con metodi violenti e repressivi, che rappresentarono gli elementi portanti della rivoluzione comunista in tutti i territori jugoslavi. Gli strumenti di cui il Mpl e di conseguenza il partito comunista si servirono per conquistare il potere furono l’esercito, i tribunali e in particolare la Sezione per la sicurezza del popolo, cioè l’Ozna. Inoltre, l’aggressività nazionale, presente soprattutto ai livelli inferiori dei nuovi quadri dirigenti, usciti dalla guerra, contribuì ad amplificare quella violenza rivoluzionaria che, senza soluzione di continuità, si trasformava in violenza di stato.    

In generale si trattò di un potere che di popolare aveva soltanto il nome, poiché tutto il sistema era concentrato nel partito comunista (con le sue diramazioni locali e regionali), nella polizia politica e negli organismi del potere statale, cioè i Comitati popolari. Tali organi del potere politico e civile, che seguivano una struttura articolata in modo gerarchico – che andava dalle località minori, alle città, ai circondari, ai distretti, alla regione, fino ad arrivare alla repubblica e alla federazione – furono in realtà degli strumenti attraverso i quali si creavano le normative e si formalizzavano le idee espresse dal Pcj. 

La costruzione del potere popolare su territori plurietnici quali erano l’Istria e Fiume, fu caratterizzata da politiche di violenza e privazione dei diritti a danno dell’intera popolazione presente sul territorio (croati, sloveni, italiani, ecc.), ma generò particolarmente quelle spinte che, nell’ambito di un processo rivoluzionario complessivo, indussero all’emigrazione fuori dai nuovi confini politici la componente italiana quasi nella sua totalità. In particolare, il processo di presa del potere sviluppato sul territorio da parte del movimento rivoluzionario jugoslavo e che seguiva uno schema adottato in tutti i territori “liberati” dai partigiani di Tito, portò da un lato il partito comunista croato/jugoslavo alla conquista dell’apparato amministrativo, delle banche e di tutte le istituzioni nelle cittadine istriane che man mano venivano “liberate” dall’esercito jugoslavo nel maggio 1945. Dall’altro, all’adozione di una serie di misure politiche, che, congiunte alla repressione del dissenso, costituirono il risultato di una ponderata strategia politica, capace di assicurare progressivamente al Pcj il controllo politico ed effettivo sull’Istria.

All’interno di questo processo rivoluzionario, complessivo delle fasi costruzione e di consolidamento del nuovo potere, le condizioni create dall’esercizio del potere da parte delle autorità jugoslave, portò la stragrande maggioranza della popolazione italiana – accompagnata da consistenti nuclei sloveni e croati – a scegliere di abbandonare il territorio nell’arco di più di un decennio, attraverso l’esercizio del diritto d’opzione per la cittadinanza italiana e le fughe illegali. L’azione svolta dalle strutture del regime comunista jugoslavo rappresentò quindi di fatto – ma ai livelli più vicini al territorio anche con buona consapevolezza – lo strumento che permise la nazionalizzazione integrale di un’area multietnica, come era quella del nord-Adriatico, a favore della componente slava (slovena e croata) della popolazione.

Nei confronti degli italiani fu tuttavia applicata la politica dell’unità e fratellanza tra i popoli, che nella variante istiana veniva definita la fratellanza italo-slava. Essa prevedeva un’integrazione subordinata di una parte della popolazione italiana residente nei territori passati sotto sovranità jugoslava, mentre tutti gli altri, per ragioni individuali o di classe o che si opponevano all’annessione, erano da scartare (considerati borghesi, nazionalisti, residui del fascismo, tutti nemici del popolo). La fratellanza, anche quella autentica, fu un mezzo e non un fine, uno strumento per ottenere il sostegno all’annessione e alla causa del comunismo jugoslavo da parte di una componente ridimensionata della società istriana. Il consolidamento del potere politico, la ristrutturazione socio-economica e la lotta per l’annessione dell’Istria alla Jugoslavia condizionarono la linea politica da condurre nei confronti della popolazione italiana: una linea che si rivelò intransigente, radicale e persecutoria nei confronti di coloro che non corrispondevano ai valori “popolari” o “socialisti” e di coloro che avversavano la soluzione jugoslava per l’Istria.

I criteri di applicazione della fratellanza da parte delle autorità e dei quadri di partito jugoslavi – che si manifestò con una dura propaganda antiitaliana, con l’equiparazione fra Italia e fascismo, con espropri su larga scala, con intimidazioni contro l’uso della lingua italiana, ma anche con vessazioni, violenze, arbitrii polizieschi – diedero alla popolazione italiana la percezione di trovarsi di fronte a un progetto di distruzione globale di tutto ciò che aveva a che fare con l’Italia, e dunque di avere a che far con un disegno di espulsione e non d’integrazione.

Tali politiche repressive riguardavano non soltanto gli italiani, ma anche quella parte della classe contadina croata, dei narodnjaci, degli intellettuali e del basso clero croato, che erano rimasti fortemente delusi dalla politica economica e sociale del regime e dall’erompere della violenza antireligiosa dopo il 1946. A conclusione del processo di annessione dei territori alla Jugoslavia, seguì un’accelerazione rivoluzionaria gestita dai poteri popolari, che spinse rapidamente tali gruppi verso la protesta. Le durissime condizioni di vita generate dalla politica degli ammassi e dalla collettivizzazione forzata delle campagne, aggravata ulteriormente dalle pressioni delle autorità locali/regionali per costringere i contadini ad entrare nelle cooperative anche con l’uso della forza, portarono infatti ad una crisi di consenso e a un rifiuto generalizzato di un regime identificato ormai con la coercizione e la violenza.

Le autorità di base (locali e regionali) che attuarono le politiche decise ai massimi livelli, giocarono un ruolo strategico nei rapporti con la popolazione e furono in genere perfettamente consapevoli delle implicazioni nazionali della rivoluzione sociale.    I quadri del partito e delle amministrazioni locali furono in massima parte costituiti da personale politico di estrazione contadina uscito dalle file del partigianato, politicamente affidabile ma amministrativamente inesperto e portatore di una forte animosità sociale e nazionale. Furono tali quadri a gestire le politiche decise ai massimi livelli del partito e dello stato, dalla linea della “fratellanza italo-slava” a quella economica. Di fronte al rifiuto della popolazione a conformarsi alle aspettative del regime, i quadri dirigenti inferiori risposero sistematicamente con metodi costrittivi e dittatoriali, perché si trovavano a gestire un potere senza disporre delle necessarie qualità politiche e organizzative, e da qui il passo all’utilizzo di angherie, di soprusi e all’uso della forza e della violenza era davvero breve. Tale modo di operare risultò amplificato dalla necessità di applicare le drastiche misure di carattere economico e sociale imposte dalla dirigenza di partito.

Il consenso al potere popolare perciò si incrinò anche in quelle aree rurali che avevano costituito la base del consenso del Mpl, tanto che il ricorso alle opzioni per la cittadinanza italiana e le fughe illegali dalla penisola costituì un sistema generalizzato per sfuggire a una situazione divenuta insostenibile.

 

Bibliografia essenziale

Orietta Moscarda Oblak Orietta, Il ‘potere popolare’ in Istria 1945-1953, Centro di ricerche storiche, Rovigno, 2016.

Orlić Mila, La creazione del potere popolare in Istria 1943-1948, in Una storia balcanica. Fascismo, comunismo e nazionalismo nella Jugoslavia del Novecento, (a cura di) L. Bertucelli,  M. Orlić, Ombre Corte, Verona, 2008, pp. 123-151.

Moscarda Oblak Orietta, La crisi istriana del secondo dopoguerra: dalle opzioni al Cominform (1947-1951), in “Italia contemporanea”, n. 287, Franco Angeli, Milano, 2018, pp.  243-272. 

Nemec Gloria, Un paese perfetto: storia e memoria di una comunità in esilio: Grisignana d’Istria 1930-1960, Irsml, Leg, Gorizia, 1998.           


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