Il comunismo adriatico

Novecento



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di Patrick Karlsen

La categoria di "comunismo adriatico" descrive le dinamiche del movimento comunista alla frontiera alto-adriatica nel secolo scorso. È nata riallacciandosi nella denominazione alla categoria di "socialismo adriatico", usata dalla storiografia in relazione al movimento socialista plurinazionale sviluppatosi nei territori costieri della Monarchia asburgica. Il suo valore conoscitivo risiede nel fare luce su alcune delle tendenze differenti, a volte divergenti e persino confliggenti, riscontrabili nel comunismo internazionale specie durante la Seconda guerra mondiale e nei primi anni del dopoguerra.

A monte di questa categoria vi è un’acquisizione storiografica importante sulla natura del movimento comunista in generale. Nelle ricostruzioni che risentivano di più delle polemiche politiche della Guerra fredda, si tendeva a offrire di esso un’immagine monolitica, come quella di uno schieramento compatto che si sarebbe mosso all’unisono sotto gli ordini del "centro", vale a dire il Cremlino a Mosca. Dopo il 1989-91 e l’apertura temporanea di importanti archivi ex-sovietici, la conoscenza sul funzionamento del movimento comunista, organizzato fino al 1943 nella rete globale del Komintern, si è approfondita e ha potuto affinarsi. Si è vista così una realtà molto più frastagliata, caratterizzata dalla compresenza di spinte eterogenee e talvolta conflittuali, inquadrate in una relazione centro-periferie spesso problematica e non univoca. Ne è emersa, in sintesi, una visione multi-dimensionale del comunismo. In questo modo, la contrapposizione fra i Partiti comunisti italiano (PCI) e jugoslavo (PCJ), esplosa alla luce del sole all’indomani della Seconda guerra mondiale intorno alla "questione di Trieste", è stata collegata alle discussioni e alle divisioni interne al movimento comunista di quel periodo. Sotto questa luce essa ha assunto significati nuovi e ricchi di implicazioni più ampie, tanto per la storia dell’Italia nella fase di transizione post-fascista quanto per lo scenario internazionale all’alba della Guerra fredda.

Dalla fine degli anni Trenta il PCJ fu uno dei partiti comunisti più critici verso le modalità in cui la tattica del Fronte popolare, lanciata dal Komintern al VII congresso del 1935, era stata applicata nella Spagna della guerra civile. Secondo gli jugoslavi, la sconfitta delle forze antifasciste allora era derivata in buona parte dall’aver messo in pratica un’impostazione "dall’alto" del Fronte: il Partito comunista membro di una coalizione di governo in posizione paritetica con gli altri partiti antifascisti. Questa concezione avrebbe ridotto i margini di manovra dei comunisti, scollegandoli dalla spinta combattiva delle masse popolari. Per il PCJ, la tattica frontista era in grado di esprimere tutte le sue potenzialità solo laddove venisse attuata "dal basso", associando al Fronte non solo i partiti ma anche le organizzazioni di massa (dei giovani, delle donne, delle professioni, ecc.) controllate dai comunisti. La coalizione, dominata dal PC, poteva diventare così la base di un nuovo potere popolare destinato a rimpiazzare in prospettiva il potere borghese. Il ridisegno integrale dell’architettura istituzionale in senso rivoluzionario si sarebbe configurato cioè nel farsi della lotta politica, impedendo che il PC diventasse vittima di "deviazioni" parlamentariste.

Dopo la parentesi del patto Molotov-Ribbentrop e il rilancio dell’antifascismo da parte dell’URSS in risposta all’aggressione hitleriana, il PCJ costruì su queste fondamenta il proprio predominio nel movimento di liberazione in Jugoslavia. Inoltre, alla linea del Fronte nazionale "dal basso" gli jugoslavi accoppiarono sin dal 1942 un ambizioso progetto in politica estera, volto all’affermazione di un’egemonia della futura Jugoslavia comunista sui Paesi confinanti nell’Europa sud-orientale.

Le diramazioni sub-statali del PCJ in Slovenia e Croazia, cioè i partiti comunisti sloveno (PCS) e croato (PCC) fondati nel 1937, attivarono le loro strutture anche a Fiume e nella Venezia Giulia, inserendosi nello spazio lasciato vacante dal PCI, debellato dalla ventennale repressione fascista. Ancora prima della resa italiana dell’8 settembre 1943, l’annessione di tali territori alla nuova Jugoslavia, obiettivo tradizionale dei movimenti nazionali sloveno e croato, era stata ricompresa nei programmi del PCS e del PCC. La situazione si modificò con il ritorno nella Venezia Giulia dei dirigenti del PCI liberati dal confino dopo il crollo del fascismo, decisi a ricostruire la struttura del proprio partito sulla base delle nuove disposizioni nazionali. Fino all’inizio del 1944, le direttive della direzione Nord a Milano furono sintonizzate sulla concezione del Fronte nazionale "dall’alto", assegnando un ruolo centrale nella guerra di liberazione alla classe operaia. Questa doveva essere condotta a uno sciopero generale, a sua volta preludio dell’insurrezione nazionale. In tale visione, la guerra partigiana veniva letta prevalentemente come uno strumento di supporto alle lotte degli operai nelle città, in vista della liberazione finale.

Il tentativo di tradurre in atto questa linea alla frontiera nord-adriatica si scontrò con le posizioni di vantaggio guadagnate nel frattempo dal PCS e dal PCC. La loro strategia al contrario puntava in massima parte sulla guerra partigiana per dare vita a zone libere, nelle quali attivare il potere popolare e avviare il processo rivoluzionario. L’attrito fra le diverse strategie si acutizzò e si rese particolarmente manifesto intorno al nodo della questione nazionale. Il PCI aveva bisogno di adottare una politica compatibile con la sensibilità patriottica dei suoi alleati nel Comitato di liberazione nazionale (CLN). Non poteva quindi accettare le rivendicazioni territoriali dei compagni jugoslavi, insistendo piuttosto su una revisione parziale del trattato di Rapallo. Si sarebbe dovuto riconoscere subito l’annessione delle terre compattamente slave alla Jugoslavia e ricorrere al diritto di autodecisione per risolvere nel dopoguerra i dissidi sulle zone nazionalmente miste. Il PCS e il PCC viceversa sostenevano che l’autodecisione si stava compiendo nella lotta in corso. La vittoria avrebbe fatto da sigillo a un processo di liberazione e di unificazione nazionale a quel punto già concluso.

La direzione Nord lasciò campo libero ai compagni croati, accettando l’inglobamento del PCI nel PCC in Istria e a Fiume, così come in prospettiva l’annessione di questi territori alla Jugoslavia. Cercò invece di tenere fermo il punto su Trieste, simbolo delle battaglie irredentiste e dell’unità nazionale italiana. L’esigenza di massimizzare gli sforzi congiunti contro il nemico consigliò alle direzioni del PCI e del PCS di mettere da parte i contrasti sul terreno, aprendo la strada agli accordi di aprile 1944. Questi di fatto comportarono l’adozione temporanea da parte del PCS della politica del PCI sulla questione nazionale, stabilendo d’altra parte la disponibilità del PCI ad adottare il modello militare-organizzativo del PCS. La frontiera alto-adriatica doveva essere il primo terreno di sperimentazione della linea jugoslava, che la direzione Nord avrebbe cercato di importare nel resto del Paese, cominciando con l’indurre il CLN dell’alta Italia a fare propri gli accordi siglati da essa con il PCS. Solo nella prima metà del 1945 l’imporsi graduale e contrastato della variante "dall’alto" del Fronte nazionale, riaffermata dal segretario del PCI Palmiro Togliatti, avrebbe posto fine al "sogno jugoslavo" della direzione Nord.

Tuttavia già nel settembre 1944, quando il PCJ decise di giocarsi il tutto per tutto rilanciando il progetto annessionista e rompendo in modo unilaterale gli accordi di aprile, divenne chiaro che l’adesione alla linea jugoslava avrebbe determinato il ritiro totale della presenza del PCI nella Venezia Giulia, Trieste compresa. Sulle prime la capitolazione fu accettata tanto dalla direzione Nord (Saluto ai nostri amici e alleati jugoslavi) che da Togliatti (accordo con Edvard Kardelj a Bari), anche perché interessato a circoscrivere l’influenza jugoslava alla zona della frontiera orientale. Dagli inizi del 1945 però egli si rese conto che il prezzo da pagare sarebbe stato troppo alto, per i riflessi che un’aperta rinuncia a Trieste avrebbe prodotto sulla tenuta dei Governi di unità nazionale e sul consenso nell’opinione pubblica. Cominciò pertanto a lavorare a una soluzione di compromesso basata sull’autonomia o sull’internazionalizzazione della città, declinate in varie forme nel corso del tempo, riportando alle stelle il conflitto con il PCJ.

In realtà, attorno alla questione di Trieste presero a fronteggiarsi su un piano percepibile le variabili tattiche che dividevano in maniera silenziosa il comunismo internazionale nel dopoguerra. Da una parte la linea di "unità nazionale" portata avanti dal PCI con la piena condivisione di Stalin, in un quadro di sicurezza collettiva e di conservazione della Grande alleanza fra le potenze antifasciste. Dall’altra una linea "classe contro classe", che leggeva la situazione internazionale secondo il discrimine divisorio comunismo-imperialismo e puntava su una sua veloce radicalizzazione, anticipando le polarizzazioni della Guerra fredda. I comunisti jugoslavi figuravano alla testa di queste tendenze interne al movimento comunista, scontente della "moderazione" della linea ufficiale staliniana. A Trieste quest’ultima si rispecchiò in un’accettazione del Territorio libero previsto dal trattato di pace, sconfessando le ambizioni annessioniste di Belgrado, coltivate da Tito e compagni anche nell’intento di tenere aperto uno spiraglio per l’estensione della rivoluzione nel nord Italia.

L’acuirsi delle divisioni fra le grandi potenze nel corso del 1947, con il lancio del piano Marshall e l’annuncio della dottrina del contenimento, sembrò dare ragione alle fosche previsioni del PCJ. Alla riunione fondativa del Cominform, l’organismo di coordinamento voluto da Mosca per compattare il movimento comunista in preparazione di una nuova guerra, le "derive" parlamentariste del PCI e del PC francese furono il bersaglio di una dura reprimenda degli jugoslavi. Essi tuttavia fraintesero le intenzioni di Stalin, ritenendo che la denuncia della linea di "unità nazionale" coincidesse con il passaggio a una politica di confronto aggressivo verso l’occidente capitalistico. Sul finire dell’anno Tito fomentò un’escalation in Grecia, dislocò truppe in Albania, accelerò il progetto di una macro-federazione nei Balcani a guida jugoslava, riprese a soffiare sul fuoco della guerra civile nel nord Italia. Stalin invece nell’immediato non mise in discussione l’impianto sostanzialmente prudente della politica estera sovietica, confermando la leadership di Togliatti e l’esclusione di ogni ipotesi insurrezionale in occidente. La sua scelta fu quella di un ripiegamento conservativo nella propria sfera di influenza. Si crearono così le basi sulle quali lievitò la polemica con Belgrado, fino alla clamorosa rottura con Tito e la cacciata del PCJ dal Cominform decretate nel giugno 1948.

La "scomunica" rappresentò uno snodo drammatico per il movimento comunista a Trieste. Non solo risuonò come una condanna ultimativa della politica annessionista, sulla quale il PCS aveva fatto dal 1944 un enorme investimento in termini militari, politici e simbolici, ma comportò il rientro definitivo del comunismo triestino nell’orbita del comunismo italiano, con la presa del possesso del partito da parte della componente italo-slovena fedele a Mosca. A gestire il distacco da Lubiana fu Vittorio Vidali, il dirigente originario di Muggia divenuto il leggendario comandante Carlos della Guerra civile spagnola. Da quel momento, le due branche del comunismo adriatico, stalinista e titoista, ingaggiarono fra loro una lotta senza esclusione di colpi, sul piano fisico, ideologico, propagandistico e dell’intelligence. Il PC del Territorio libero fu spinto da Vidali a imboccare un indipendentismo sui generis, attenuando di molto le pulsioni anti-italiane precedenti.

Alla morte di Stalin, tuttavia, l’intransigenza con cui a Trieste era stata condotta la battaglia cominformista divenne presto obsoleta. Dopo il 1954, con il ritorno di Trieste all’Italia e le prime aperture di Kruscev a Tito, i mai sopiti furori anti-titoisti di Vidali avrebbero costituito un ostacolo imbarazzante sulla strada della riconciliazione fra il PCI e la Lega dei comunisti jugoslavi, oltre che un anacronismo rispetto alla stessa normalizzazione dei rapporti fra Roma e Belgrado. La parabola del comunismo adriatico, inteso quale osservatorio privilegiato per decifrare le dialettiche interne al movimento comunista internazionale, volse rapidamente al tramonto. Nei decenni a seguire, la ricerca comune di un’alternativa al monolitismo sovietico e alla divisione in blocchi della Guerra fredda avrebbe cementato l’intesa fra i comunisti delle due sponde dell’Adriatico.

 

 

Bibliografia essenziale

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