Il Patriarcato d’Aquileia nel Basso Medioevo (secoli XIII-XV)

Medioevo



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di Andrea Tilatti 

Nel XII secolo erano stati sostanzialmente definiti gli ambiti territoriali sui quali si estendeva la multiforme autorità dei patriarchi di Aquileia. Come vescovi erano titolari di una delle più estese diocesi europee, che includeva buona parte dell’attuale Friuli, il Cadore, lembi della Carinzia e quasi per intero l’odierna Slovenia. Come patriarchi e arcivescovi erano alla guida di una provincia metropolitica che andava dalle diocesi istriane a quelle venete, lombarde e trentine, con diciassette suffraganei. Come signori temporali concentravano il loro potere sopra tutto sul Friuli compreso grosso modo tra l’arco alpino e il mare, l’Isonzo e il Livenza (ricalcando approssimativamente l’eredità dell’antico ducato longobardo di Forum Iulii/Cividale) e sulla marca istriana. Quest’ultimo dominio, però, era precario e conteso con efficacia sopra tutto da Venezia.

Gli sviluppi bassomedievali di questo considerevole e composito potere, che univa in modo pressoché indistinto – come tipicamente avveniva per le principali istituzioni ecclesiastiche nel pieno medioevo – prerogative spirituali e temporali, sono spesso stati connotati dagli storici con il concetto di una progressiva “crisi” alla quale andarono incontro i patriarchi, fino all’incorporazione del loro dominio nello stato veneziano (1420-1445). La chiave di lettura “politico-istituzionale” della storia del patriarcato, sopra tutto orientata a seguirne gli aspetti di governo temporale, giustifica questa valutazione. Occorre tuttavia ricordare che la “crisi” del potere dei patriarchi d’Aquileia si manifestò con maggiore ritardo e con modalità diverse rispetto a quelle incontrate, in Italia centro-settentrionale, da altri prelati dotati di qualifiche signorili e detentori di temporalità. Inoltre, l’istituzione patriarcale si mostrò capace di adattarsi al progressivo mutare dei quadri politici e istituzionali dell’Italia settentrionale, in un periodo di intense dinamiche conflittuali.

Per mutuare linguaggi geopolitici attuali, l’ambito di potere dei patriarchi d’Aquileia era a “sovranità limitata”, impossibilitato a reggersi da solo, e, per mantenersi, aveva bisogno del sostegno di alleanze efficaci, sia con le autorità universali (Impero e Papato), sia con una multiforme e mutevole rete di relazioni interne ed esterne, che spesso originavano da comuni interessi o anche da vincoli parentali e familiari che i prelati aquileiesi portavano in dote, giacché spesso appartenevano a famiglie di alto livello sociale.

Non è pensabile, in poche righe, di tracciare un quadro analitico di tali dinamiche, ma è possibile identificare alcuni fattori di forza e di debolezza, che contribuiscono a comprendere l’evoluzione storica del patriarcato nei secoli dal XIII al XV. Un primo elemento di forza è senza dubbio l’assenza, in Friuli, di centri urbani capaci di svolgere un vigoroso controllo del territorio e di erodere le libertates della chiesa aquileiese. Solo Udine poté manifestare, dalla seconda metà del Trecento in poi e in maniera intermittente, un tentativo di supremazia, ma non riuscì mai a liberarsi dalla tutela dei patriarchi. Un secondo elemento di forza fu l’estensione della base patrimoniale della chiesa d’Aquileia e dei diritti pubblici a essa connessi. Sebbene con difficoltà e farraginosità, furono queste risorse a fornire un flusso di denaro alle camere patriarcali, per sopravvivere in un periodo nel quale crebbe costantemente d’importanza l’economia monetaria. Un terzo motivo – anche se non privo di ambiguità e di ambivalenze – fu la relazione che i patriarchi potevano vantare con gli imperatori o con i papi, anche a causa della duplice natura della loro funzione. La diversa intensità di questi vincoli, che mutavano sia in ragione di intese personali, sia in ragione delle fasi attraversate nella contingenza dalle due istituzioni universali, in parte spiega il vigore o la debolezza dei patriarchi, che dovevano fronteggiare tanto competitori interni (in primo luogo i conti di Gorizia, capaci di coordinare attorno a loro una nobiltà friulana inquieta e rissosa), quanto vicini aggressivi, come il comune di Treviso (fra XII e XIII secolo), i signori da Romano, da Camino, gli Scaligeri e i Carraresi (tra la seconda metà del Duecento e il tardo Trecento), ma sopra tutto Venezia, a volte alleata, ma più spesso nemica, per non parlare dei duchi d’Austria e di altri potentati transalpini.

Il principale motivo di debolezza istituzionale era forse la mancanza di continuità nella trasmissione del potere, aggravata da una carente organizzazione degli uffici di governo. La morte di ogni patriarca apriva, infatti, periodi più o meno prolungati di vacanza, che non veniva compensata da una reggenza efficiente da parte del capitolo aquileiese. Generava inoltre particolarismi centrifughi, dispersioni patrimoniali e dinamiche conflittuali a volte molto gravi, nelle quali si inserivano i soggetti o le potenze interessate a impadronirsi del seggio patriarcale. Occorre osservare che la società locale ben difficilmente si mostrava capace di esprimere i vertici del proprio potere politico ed ecclesiastico: ulteriore segno di intrinseca debolezza del Friuli. Da questo punto di vista, un momento di svolta avvenne alla metà del Duecento, alla morte del patriarca Bertoldo d’Andechs (1251), che segnò l’inizio della riserva papale nella nomina dei patriarchi, secondo una prassi che si andò solo successivamente generalizzando nella cristianità occidentale, mediante l’azione dei papi avignonesi. I presuli aquileiesi furono da quel momento in poi scelti con diverse modalità e grazie a diverse raccomandazioni, ma che dovevano comunque incontrare l’assenso dei pontefici. D’altra parte, con l’avvento di Raimondo Della Torre (1274-1299) si inaugurò un secolo di prevalenza della famiglia Della Torre, che, espulsa da Milano per opera dei Visconti, stabilì in Friuli il centro dei suoi interessi, pur mantenendo un esteso tessuto di relazioni nella penisola italiana e interagendo costantemente con la pars Ecclesiae (la così detta parte guelfa). I Torriani espressero ben quattro patriarchi e, anche durante i periodi nei quali il seggio era occupato da altri personaggi (Pietro da Ferentino, Ottobono da Piacenza, Bertrando di Saint-Geniès e Niccolò di Lussemburgo), riuscirono, mediante l’occupazione di molti posti chiave delle istituzioni ecclesiastiche e laiche, a influenzare fortemente la vita politica ed economica del Friuli, anche se talora l’esito fu un’esasperazione della conflittualità interna, come avvenne durante l’esperienza di governo di Ottobono da Piacenza (1302-1315) o sullo scorcio dell’episcopato di Bertrando di Saint-Geniès (1334-1350).

La “limitata sovranità” del patriarcato si aggravò nella seconda metà del Trecento, sopra tutto in corrispondenza con un accentuarsi dell’attivismo imperiale, e in particolare di Carlo IV, nell’imporre la scelta di patriarchi a lui devoti, come furono il proprio fratellastro, Niccolò di Lussemburgo (1351-1358), e il proprio cancelliere, Marquardo di Randeck (1365-1381). Lo scisma avignonese (1378-1417), poi, inaugurò un periodo di ulteriore instabilità, che coinvolse anche i patriarchi, ormai sempre più antagonisticamente schierati su una delle posizioni in conflitto e inseriti in dialettiche di potere che esasperavano i focolai di conflitto interni al Friuli. Fu in questo contesto di disordini incomponibili, che maturò la decisione di Venezia di assicurarsi una maggiore stabilità del proprio “stato” di terraferma, prolungando una politica inaugurata a cavallo tra la fine del XIV e l’inizio del XV secolo, quando si assicurò il dominio su buona parte del Veneto e di alcuni territori contermini. Nel 1420, per via pattizia o militare, a seconda delle condizioni e degli schieramenti di un Friuli che era irrimediabilmente frammentato, la Serenissima si impadronì del potere temporale a spese del patriarca Ludovico di Teck (1412-1439). Il motivo contingente dell’aggressione veneziana fu l’alleanza del patriarca con l’imperatore Sigismondo, che ne aveva favorito l’elezione in funzione ostile alla città lagunare. Tuttavia Venezia approfittò anche delle lotte intestine ormai endemiche, che compromettevano sopra tutto la sicurezza delle vie di comunicazione, vitali per gli interessi commerciali, finanziari e geopolitici di Venezia. Ludovico di Teck tentò fino alla fine della sua vita di recuperare il controllo del patriarcato, ma senza riuscirvi. L’atto formale di cessione della maggior parte delle prerogative temporali fu concordato nel 1445, dal patriarca Lodovico Trevisan, che tuttavia mantenne alcuni frammenti di tali poteri sulla città di Aquileia, e le comunità di San Vito e di San Daniele. Con la fine delle “autonomie” politiche, non si esaurì la vita del patriarcato, che continuò a sussistere nelle sue funzioni ecclesiastiche fino alla soppressione voluta da papa Benedetto XIV nel 1751, con la successiva erezione delle arcidiocesi di Gorizia (1752) e di Udine (1753), che si spartirono l’eredità storica e in parte materiale degli antichi vescovi di Aquileia.

 

Bibliografia essenziale

Paschini P, Storia del Friuli, Udine 1934-1936 e successive edizioni e ristampe (per un inquadramento generale).

Storia della società friulana, Il medioevo, a cura di Paolo Cammarosano, Casamassima, Udine 1988, in particolare i saggi di Donata Degrassi (economia) e Flavia De Vitt (istituzioni ecclesiastiche e vita religiosa).

Il Patriarcato di Aquileia, uno stato nell'Europa medievale, a cura di Paolo Cammarosano, Casamassima, Udine 1999.

Giuseppe Trebbi, Il Friuli dal 1420 al 1797. La storia politica e sociale, Casamassima, Udine 1998.

Molto utile è la consultazione della rivista «Memorie storiche forogiuliesi» e del Nuovo Liruti. Dizionario biografico dei friulani, consultabile online: http://www.dizionariobiograficodeifriulani.it/ 

 


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