Dedizione di Trieste all'Austria

Medioevo



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di Paolo Cammarosano

Nel Trecento Trieste era una città di medie dimensioni, sede episcopale da lunghissimo tempo. L’organizzazione politica era quella di un Comune, sostanzialmente indipendente sul piano legislativo, amministrativo e militare, formalmente subordinato a istanze superiori diverse e diversamente risalenti nel tempo: il vescovo cittadino e il patriarca di Aquileia, l’imperatore del Sacro Romano Impero fondato da Carlomagno. Più tardi, nei secoli XII e XIII, si erano affermate influenze esterne, della Repubblica di Venezia e dei conti di Gorizia. Nessuno di questi poteri esercitava una effettiva influenza sulla vita politica della città, ma tutti erano tendenzialmente interessati ad un controllo più stretto.

L’autonomia cittadina espressa nell’organizzazione comunale si era affermata a Trieste un poco più tardi rispetto ad altre città italiane, comunque non più tardi del 1139, quando sappiamo che una parte della cittadinanza si era costituita in un organismo collettivo per la gestione dei beni pubblici e la conseguente rivendicazione di un territorio comunale tra Longera, Sistiana e il mare.

I Triestini compensavano la modestia del loro territorio rurale e della relativa ricchezza fondiaria con una vitale attività di mercatura. Essa non deve essere sopravvalutata: la popolazione agiata della Trieste medievale rimase sempre soprattutto costituita da proprietari di terre e di vigne e di saline e pescaie. Inoltre la loro attività mercantile si dovette scontrare subito con la presenza veneziana, che dal secolo XII era formidabile sia sul terreno politico che su quello finanziario e commerciale. Nel 1202, al momento dell’impresa del doge Enrico Dandolo, la Quarta Crociata, i cittadini di Trieste dovettero giurare un patto di fidelitas a Venezia. Abbiamo l’elenco completo dei giuranti. Esso comprende un piccolo numero di artigiani, ad esempio i fabbricanti di scarpe e calzari (i "caligari"), e vede molti nomi di quella che sarà una informale nobiltà cittadina: Leo, de Genano, Ranfo, Ziuleti, Mesalti, Ade, Teffanio, Niblo. In tutto si trattava di circa 350 capifamiglia, il che ci conduce a calcolare una popolazione nell’ordine dei duemila abitanti.

Contemporaneamente alla accettazione di questa fidelitas si svolse a Trieste un processo di acquisizione al Comune dei diritti giurisdizionali dei vescovi (giustizia criminale e di appello, capacità di promulgare statuti, prerogative fiscali). Nel febbraio del 1236 il vescovo Giovanni, motivando con la necessità di rifondere un prestito di 500 marche promulgò in cambio di tale somma un atto di "affrancamento" del Comune. Nel maggio del 1253 le franchigie furono rinnovate e anzi ampliate, con l’attribuzione al Comune della potestà legislativa.

E in effetti nel corso del Duecento il Comune di Trieste elaborò una serie di statuti, dei quali rimane solo una traccia frammentaria e indiretta. Ma nel 1318 venne redatto infine un corpo statutario organico e corposo, affidato ad un codice in pergamena che a differenza dei precedenti statuti ha attraversato i secoli sino a noi.

La seconda decade del Trecento nella quale si iscrive questa redazione statutaria rappresentò una fase importante nell’evoluzione comunale. Nel 1313 vi era stata una sollevazione nobiliare, condotta da un clan che faceva capo a tale Marco Ranfo. Non era un fatto eccezionale in Italia. In molte città si ebbero esperimenti di signoria familiare, anzi personale, di diversa fisionomia, livello e durata. L’esperimento signorile dei Ranfi venne stroncato nel sangue, e il Comune triestino mantenne a lungo un atteggiamento persecutorio nei confronti dei discendenti di Marco Ranfo. Trieste aveva così liquidato per sempre ogni pulsione di governo familiare signorile e consolidava in questi anni la propria struttura di governo.

Come ogni città comunale italiana, Trieste era retta da una sorta di diarchia: un vertice di governo, il Podestà di durata semestrale, e un Consiglio. Gli statuti del 1318 sono molto incentrati sulla figura del podestà, ed attenti a limitarne i poteri, certo in seguito all’esperienza negativa di una signoria personale. Un elemento importante degli statuti era la limitazione di alcune prerogative dei vescovi, in particolare nel campo delle concessioni feudali.

Una iniziativa importante fu l’istituzione, nel 1322, dell’ufficio dei Vicedomini, presso il quale era obbligatoria la registrazione degli atti privati: un tratto, questo della pubblica registrazione dei documenti notarili, molto tipico di Trieste anche se non esclusivo. Oltre agli statuti e agli atti privati insinuati nella Vicedomineria rimangono piuttosto continui ed integri i registri dei Camerari, cioè delle entrate e delle spese pubbliche, e gli atti della giustizia corrente civile e criminale. La Trieste del Trecento è insomma piuttosto ricca di documentazione, anche se mancano pezzi importanti quali i registri delle delibere del Consiglio.

Nel 1350 fu redatto un secondo corpo statutario, che è anch’esso sopravvissuto: un codice riccamente illustrato, e che indica l’evoluzione in senso oligarchico del Comune cittadino. Il Podestà era oramai l’indiscussa forma di vertice di governo, come era indiscussa la durata semestrale della carica. Egli reggeva il Comune insieme a tre giudici: dunque un organo di fisionomia aristocratica. Aristocratica era anche la composizione del Consiglio, composto di 180 consiglieri di durata vitalizia: dunque si poteva rinnovare un consigliere solo per morte di un consigliere in carica. Inoltre, fatto più importante, la nomina era limitata a chi fosse figlio o nipote di un consigliere. Dunque un governo rigorosamente oligarchico, sul modello instaurato nel Duecento da Venezia.

Come valutare la rappresentatività del Consiglio? Questo ci conduce al problema della valutazione della consistenza demografica di Trieste nel Trecento. La consuetudine di recare al capitolo di san Giusto un donativo in cera per ogni defunto si tradusse nella redazione di "libri delle cere" che consentono di valutare, a partire dal dato della mortalità, una popolazione nell’ordine delle cinquemila anime. Dunque, nell’arco di circa un secolo e mezzo si era verificato più che un raddoppio della popolazione urbana, dunque una espansione notevole. Possiamo allora dire che grosso modo era rappresentato in Consiglio fra il 10 e il 20 per cento della popolazione. I residenti urbani occupavano alla metà del Trecento uno spazio racchiuso fra il colle di San Giusto ed il mare, la direttrice dell’attuale Corso Italia e quella della via San Michele, nonché un territorio sul Carso comprensivo di una decina di villaggi.

     Le attività che offrivano le maggiori prospettive di profitto erano il commercio del vino, dell'olio e del sale. La finanza pubblica si reggeva su un sistema di imposte indirette con i relativi appalti. Modesta era l’entità del debito pubblico, data l’assenza di una politica espansionistica e dunque di un grosso sforzo militare della città, la cui difesa era imperniata su una milizia urbana.

     Nel 1350 venne affiancato al Consiglio Maggiore un consiglio ristretto, dei quaranta “sapienti” o “rogati”, ed anche questo indica una evidente derivazione dall’esperienza politica e istituzionale della Repubblica di Venezia. L’influenza veneziana su Trieste era stata sempre grande, e bisogna guardarsi dal leggerla in esclusivi termini di dominazione politica, peggio ancora di sopraffazione. Da Venezia il ceto egemone triestino aveva mutuato forme istituzionali e cultura artistica, ed erano stati spesso veneziani i suoi Podestà. Veneziano era anche Giovanni Foscari, che nel suo terzo mandato, nell’anno 1365, promulgò una nuova redazione degli statuti di Trieste.

     In questo stesso anno 1365 era salito sul soglio patriarchino aquileiese un forte prelato e principe tedesco, Marquardo di Randeck, promotore di una grande redazione legislativa, le Constitutiones Patriae Foriiulii, di un forte tentativo di restaurazione del potere patriarchino nei confronti della feudalità e ispirato politicamente all’idea di una alleanza solida con l’imperatore. L’impero conosceva peraltro in questi anni una situazione non facile, per conflitti dinastici interni e la tormentata gestione dei territori dell’Europa centrale e orientale. Una potenza dinastica, ambiziosa della corona imperiale già posseduta e poi perduta, la casa degli Asburgo, andava organizzando un forte principato territoriale fra Carinzia, Stiria, Tirolo, Carniola, e nell’anno in cui Marquardo promulgò le Constitutiones signoreggiava su tutto il territorio fra Lubiana e il Carso, e su Duino, il cui signore era stato un fedele del patriarca di Aquileia e dei conti di Gorizia ma adesso, precisamente nel febbraio del 1366, fece formale atto di subordinazione agli Asburgo. La subordinazione dei Duinati agli Asburgo fu parzialmente contrastata dal patriarca Marquardo, e rappresenta un fatto importante nel giuoco delle potenze che attorniavano Trieste e che erano in concorrenza tra loro, una concorrenza nella quale il controllo della città di Trieste assumeva un ruolo sempre maggiore.

     In questo giuoco si inserì con violenza la Repubblica di Venezia. Nel 1368 si manifestò una aperta ribellione triestina alla fidelitas giurata oltre un secolo e mezzo prima a Venezia e si iniziò una guerra, che si sarebbe conclusa con la vittoria militare veneziana e i nuovi patti di subordinazione triestina a Venezia nel novembre del 1369. Certamente l’atteggiamento dei Triestini non era compatto. Una interessantissima lettera del capitano veneziano Domenico Michiel al doge Andrea Contarini dell’aprile 1369 sosteneva che i possidenti erano propensi alla concordia con Venezia mentre la volontà di una difesa fino all’ultimo era cosa di coloro che non possedevano poco o niente.

     Fu nel corso di questa guerra, e dell’assedio veneziano di Trieste, che il Comune triestino tentò di salvare la propria autonomia cercando l’appoggio dei duchi d’Austria. Venne elaborato un atto di dedizione nel quale i Triestini riconoscevano i duchi come loro “domini naturales et hereditarii”. Ma l’aiuto austriaco in quell’autunno del 1369 non fu efficace né tempestivo, e soprattutto i duchi cercarono la via di un mercanteggiamento con i Veneziani in cambio del ritiro del proprio appoggio a Trieste: mercato che si sarebbe concluso nel 1370, alcuni mesi dopo che Trieste aveva dovuto capitolare al doge. La capitolazione di Trieste suscitò grande emozione e suggerì un nuovo coordinamento delle forze ostili all’egemonia veneziana: il fatto decisivo fu l’iniziativa militare della Repubblica di Genova, la cui flotta sconfisse clamorosamente la veneziana nelle acque di Pola nel maggio del 1379.

     Le alterne vicende di questa che si sarebbe detta la guerra di Chioggia si conclusero nell'agosto del 1381 con la pace di Torino. Nel frattempo, grazie all’intervento genovese e alle sconfitte veneziane, Trieste aveva recuperato brevemente la propria autonomia, ma rimaneva in cerca di un’alleanza che la garantisse contro quella che appariva la minaccia più temibile e già sperimentata, cioè l’espansionismo veneziano. Vi era stata senza dubbio una delusione per i comportamenti dei duchi d’Austria, e così il Comune di Trieste cercò a lungo l’altro e più naturale alleato, che era il Patriarcato aquileiese, nella persona del grande Marquardo di Randeck. A lui la città fece un atto di dedizione, di dichiarato contenuto antiveneziano, nel luglio del 1380. Nel mese seguente un nobile cavaliere friulano, Simone di Prampero, chiedeva e otteneva dal Consiglio di Udine di poter accettare la nomina a capitano di Trieste: l’autorità patriarchina su Trieste si esplicava così per due vie, una sovranità formalmente riconosciuta e un esercizio indiretto del potere per il tramite di un esponente della nobiltà friulana inserito nella compagine politica udinese. Il 2 gennaio del 1381 Simone di Prampero, il Comune e i giudici di Trieste inviarono al Comune di Udine una ambasciata intesa a chiedere aiuto contro quanti minacciavano la comunità triestina

e denunziavano una incombente minaccia veneziana: i Veneziani, si disse, erano pronti ad un attacco dal mare, erano forti di avere come ostaggio circa quarantotto notabili triestini, e un partito interno a Trieste nutriva sentimenti filoveneziani se non altro per recuperare alla libertà quei concittadini.

     La risposta udinese nell’immediato fu debole, con l’esplicita asserzione che mancavano i mezzi adeguati e con un rinvio di delibera. Ma sulla intrinseca fragilità politica e militare udinese intervenne negli stessi giorni un improvviso e tremendo motivo di indebolimento che fu la morte del patriarca Marquardo, il 3 gennaio del 1381. Si aperse una crisi, con il formarsi di coalizioni avverse all’avvento del nuovo patriarca di nomina papale, Filippo d’Alençon, si innescò una guerra ed un giuoco politico che coinvolgeva sia potenze esterne che tutte le cittadine importanti del Patriarcato e si manifestarono in piena luce gli elementi di debolezza dello stato patriarchino.

     Il Comune di Trieste assunse un atteggiamento oscillante, aderendo in un primo momento alla lega friulana ostile a Filippo d’Alençon ma mutando in seguito la propria posizione, e soprattutto dovette seguire con preoccupazione l’evoluzione udinese di quell’anno 1381. Dopo una prima fase di pur cauta adesione alle richieste triestine di aiuto, sostenute anche dal personaggio più importante di Udine, Federico Savorgan, non solo seguì da parte udinese una carenza di interventi, ma si manifestarono anche attitudini ostili a Trieste da parte del Savorgnan, del quale veniva in luce anche una autonomia personale di iniziativa politica, con una tendenza filoveneziana di fondo ed anche avvicinamenti a Ugo di Duino, quindi indirettamente alla casa d’Austria: insomma un possibilismo che non offriva garanzia di un deciso supporto all’autonomia triestina da parte udinese.

     Fu in questo quadro di crescente e motivata diffidenza verso un possibile sostegno patriarchino, cioè udinese, che dovette maturare in una parte della compagine politica triestina la propensione ad una nuova dedizione al duca Leopoldo d’Austria: un atto che questa volta avrebbe avuto successo ed esito stabile. Un primo giuramento fu stipulato nell’agosto del 1382, l’accettazione da parte del duca Leopoldo fu sancita nel settembre.

     Molteplici sono i parametri in base ai quali va interpretata la dedizione triestina alla casa d’Austria, in uno sforzo sereno di depurazione dell’evento dagli elementi di passione politica che ne hanno spesso deformata la lettura in passato. Un primo, generico ma nondimeno importante elemento interpretativo è l’inserimento di quella dedizione in un processo di semplificazione del mosaico dei poteri regionali, un processo che era in corso dagli inizi del Trecento.

     Resta ovviamente da chiarire come nella semplificazione del mosaico e nell’ineluttabile aggregazione a una delle sue tessere maggiori la scelta triestina sia caduta sul ducato d’Austria. La scelta austriaca era stata compiuta in precedenza, nel 1369, con l’esito allora infelice che ho ricordato poco sopra. È un dato fondamentale da tenere presente, come è fondamentale ricordare la funzione antiveneziana di quella prima dedizione. Che nel 1369-1370 il comportamento degli Asburgo si fosse rivelato deludente, con la trattativa condotta separatamente con Venezia, rende tanto più significativo il fatto che nel 1382 il Comune di Trieste, dopo l’incertezza di cui abbiamo detto quanto alla prospettiva patriarchina, abbia comunque ripetuto la scelta austriaca, con un intento fondamentalmente antiveneziano.

     Una visione tradizionale motiva la scelta austriaca come quella orientata su un signore più lontano, e perciò più garante di autonomia rispetto ai vicini Patriarcato e Venezia. In realtà l’Asburgo era vicinissimo, arrivava a Postumia e Duino e sul versante occidentale dominava il Trevigiano. Non si trattò dunque di una questione di maggiore o minore vicinanza fisica, ma di un tipo di dipendenza diverso da quello che si sapeva esercitato dalla Repubblica dominante su Capodistria e su altre città istriane e sulle città del Veneto occidentale. L’autorità asburgica apparve probabilmente come una autorità di tipo diverso, di tipo “imperiale”, che cioè derivasse la sua legittimità dall’impero. All’impero e al suo vertice, l’imperatore, si era guardato nel medioevo come al vertice politico generale, alla fonte della giurisdizione della società civile, ma anche come ad un’autorità che, per definizione, esercitava una sovranità alta sopra una serie di entità politiche, stati cittadini o regionali, alle quali era garantita una autonomia di consuetudini e leggi e di forme di governo locale. Perché il Comune di Trieste non si diede direttamente all’imperatore? Ho già ricordato come l’impero attraversasse una situazione di grande difficoltà, anche di incertezza sul suo stesso vertice “lussemburghese-boemo”. La potenza europea il cui connotato istituzionale contemperava la forza di un principato territoriale importante e il prestigio di una possibile, tendenziale corona imperiale erano gli Asburgo duchi d’Austria.

     Che la scelta non fosse insensata sarebbe stato confermato nell’immediato, e poi piuttosto a lungo, dal fondamentale rispetto della legislazione statutaria municipale da parte austriaca e da una ripresa di attività legislativa autonoma, sin dal 1384, dopo la stasi che aveva caratterizzato gli anni del domino veneziano. Nei nuovi statuti fu recepito il giuramento del Capitano, succeduto al Podestà nel governo della città di Trieste in nome del duca d’Austria. Le carte del codice in cui era sancito questo passaggio terminavano con la disposizione della traduzione in lingua tedesca, per offrire al capitano o al vicecapitano un testo a lui intellegibile. Nella nuova fase di dipendenza dall’Austria l’attività di aggiunte e correzioni degli statuti riprese con grande intensità, soprattutto dagli inizi del Quattrocento: fra il 1401 e il 1420 se ne contano circa seicentocinquanta.

     Di particolare importanza è la ricezione negli statuti di una delibera del Consiglio del 31 gennaio 1412 che istituiva un collegio di sei sapientes, i quali insieme ai giudici avrebbero dovuto fare ordinamenti, deliberandoli a maggioranza, per il buono stato della città e del distretto di Trieste. Era un passo importante nella costituzione formale di un patriziato, e l’esito di una evoluzione politica che aveva avuto nella compattezza del ceto dominante il punto di forza e la bussola nella difficile navigazione tra le fedeltà esterne e la tensione alla libertà cittadina.

 

Bibliografia essenziale

Questo testo è rielaborato dalla lezione tenuta dall’autore il 3 novembre 2013 al Teatro Verdi di Trieste per il ciclo “Lezioni di storia / I giorni di Trieste”, poi pubblicato con il titolo 1382: leadedizione di Trieste all’Austria, in I giorni di Trieste. Otto grandi lezioni di storia, Laterza, Roma-Bari 2014, pp. 23-33.

Lonza B., La dedizione di Trieste all’Austria, Italo Svevo, Trieste 1973 (postumo).

Arcon R., Colombo F., Pellican A., Radacich M., Ubaldini T., 1382. Appunti sulla dedizione di Trieste al duca d’Austria, Italo Svevo, Trieste, 1982.

Bottazzi M., 1382. La subordinazione di Trieste al duca df’Austria, in Le subordinazioni delle città comunali a poteri maggiori in Italia dagli inizi del secolo XIV all’ancien régime. Risultati scientifici della ricerca, a c. di Miriam Davide, CERM, Trieste 2014 (Studi 12), pp. 133-164.


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