Le epidemie di peste nel Seicento

Età moderna


La diffusione della peste interessò più volte la Terraferma friulana e giuliana nel corso del secolo XVII. La prima comparsa si ebbe nella città di Trieste e nell'Istria veneta, dove imperversò per quasi due anni (1600-1602); le stime indicano che il territorio istriano contava ad inizio secolo circa 70.000 abitanti e, in seguito all'epidemia, la popolazione scese a poco più di 40.000 unità, provocando le maggiori perdite umane a Capodistria, Umago, Buje, Verteneglio, Grisignana, Cittanova, Parenzo, Pisino, Rovigno e Pola. Il morbo si ripresentò una decina di anni dopo in Istria (nel 1618, 1619 e 1621) e a Gorizia (1623), ma fu la peste diffusasi dal 1628 al 1631 a causare il più alto numero di vittime mai raggiunto in regione: da Travesio a Cisterna, a Cividale, a Udine, a Pordenone, a Gorizia ed a Marano si registrarono le percentuali più consistenti di decessi. Nel 1641 altri focolai si diffusero in Istria, mentre nel goriziano si registrarono nuovi episodi di peste solo a fine secolo (1682). Per far fronte ad una ricorrenza così rovinosa, la Repubblica di Venezia più volte mise in atto misure e provvedimenti sanitari per contenere la diffusione del morbo. Caratteristica di ogni periodo critico fu l'emissione di proclami, di notifiche e di regolamenti per le norme comportamentali, mentre due furono le fasi di attuazione: innanzitutto venne stabilito il dovere d'informare il luogotenente sul preciso luogo in cui era stato riscontrato il morbo, comprendendo i casi effettivi, quelli presunti e i transiti degli appestati. La seconda fase prevedeva la distribuzione di rastrelli di sicurezza, che permettevano la libera circolazione solo alle persone sane munite di certificati detti fedi di sanità; per gli inadempienti erano previste pene severissime, fino alla condanna a morte. Solitamente, secondo quanto si legge dalle disposizioni del Senato, ma anche del luogotenente della Patria del Friuli e degli ordini patriarcali (1635, 1646, 1656), la prima azione difensiva fu il divieto d'accesso ai quartieri appestati, mentre per i malati e per i sospetti vigeva il ricovero coatto presso i lazzaretti. Nelle zone di confine, il controllo sulla diffusione del morbo avveniva attraverso l'esame sanitario dei viaggiatori e delle merci in transito, immediatamente distrutte se ritenute infette. Tali decisioni, le restrizioni e gli impedimenti di mobilità decisi dai provveditori, implicarono l'interruzione dei traffici delle merci, creando spesso gravi difficoltà di approvvigionamento. Un esempio importante fu il lazzaretto di Pontebba, posto al confine con l'impero, dove venivano trattenute le merci in entrata e in uscita, mentre le persone erano sottoposte a visita sanitaria da parte di due medici, l'uno detto fisico, laureato e teorico, l'altro definito chirurgico, ossia il tecnico addetto agli interventi manuali e alle medicazioni.


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